Fenomeno “Sharenting”: quando i figli finiscono in vetrina sui social
Non solo i Ferragnez. Sui social spopolano gli account di genitori che pubblicano contenuti con i loro bambini a fini commerciali. Così le immagini dei minori possono finire in brutte mani. Ma ora un disegno di legge punta a frenare questo marketing sulla pelle dei più piccoli
Nell’era digitale anche la genitorialità è diventata un contenuto consumabile attraverso gli schermi dei nostri telefoni, trasformando momenti intimi e sensibili della vita dei più piccoli in attrazioni che nutrono gli algoritmi delle piattaforme. Sono infatti sempre più numerose le famiglie che scelgono di condividere la vita dei loro figli online, con un numero sempre maggiore di account che guadagnano cifre astronomiche attraverso la loro esposizione.
Ma cosa si nasconde davvero dietro questi contenuti? La continua condivisione di materiale che ha come protagonisti i bambini prende il nome di “sharenting”, un anglicismo che deriva dalla fusione tra “sharing”, cioè condividere, e “parenting”, ossia essere genitori. In questo contesto l’esposizione dei minori per fini commerciali può assumere diverse forme.
1) I piccoli sono un elemento imprescindibile dello storytelling dei genitori, svolgendo una funzione sociale: fanno in modo che gli adulti siano percepiti come più autentici e servono ad amplificare il rapporto di fiducia che si instaura con i follower, che diventano così più suscettibili agli stimoli commerciali. Diversi studi hanno inoltre dimostrato che i post che includono bambini generano fino a tre volte più interazione rispetto a quelli focalizzati sugli adulti, potenziando così il valore commerciale dei profili dei genitori.
2) I profili sono focalizzati esclusivamente sui minori: in questo contesto, genitori e figli collaborano nella produzione di contenuti seguendo uno schema editoriale consolidato, definendo una sorta di produzione concepita prevalentemente per un pubblico infantile.
Baby imperi
Le origini dello “sharenting” possono essere rintracciate nei “mom blog” dei primi anni 2000, dove pioniere come Heather Armstrong e Rebecca Woolf hanno catturato l’attenzione di un ampio pubblico affrontando temi spesso ignorati dai media convenzionali, aprendo la strada a lucrativi accordi commerciali con i brand, che potevano così contare su un pubblico estremamente targetizzato e fidelizzato.
Con l’arrivo dei social network la condivisione della vita parentale si è ulteriormente evoluta, diventando un fenomeno culturale e commerciale che ha dato vita a una nuova categoria di celebrità: i baby influencer.
Questi account stanno trasformando il settore mediatico, attirando un vasto e variegato pubblico e generando significativi profitti, fino a diventare la principale fonte di reddito per molte famiglie, come evidenziato dal creator Stefano Pollari in un’intervista del 2022 a Today: «Ero senza una dimora, ma poi ho iniziato a creare video con mia figlia e a monetizzare. Ora, grazie a Ilary, non solo sopravviviamo, ma stiamo vivendo la nostra rinascita insieme. Ho una casa confortevole e una vita felice. Anche dal punto di vista economico, le cose vanno bene».
A riprova del successo di questo fenomeno possiamo notare come tra i dieci canali YouTube più popolari al mondo ci siano proprio quelli con protagonisti bambini, come Like Nastya e Ryan’s World, che hanno costruito imperi digitali che generano milioni di dollari, con contenuti che spaziano dal gioco all’educazione.
Per questi account a monetizzazione avviene secondo diverse modalità: utilizzano pubblicità, sponsorizzazioni e vendita di prodotti tematici, trasformando le attività ludiche e i momenti familiari in campagne di marketing strategiche, dove ogni video o post può servire come una potenziale pubblicità per un prodotto o un servizio associato.
Anche nel panorama italiano sono sempre più numerose le famiglie che hanno scelto di utilizzare l’immagine dei propri figli per un ritorno economico. Canali come Gbr-Giochi per bambini e ragazzi, MammaGiulia e FigliaChiara, Papàperscelta, I Mazzegaro e molti altri hanno trasformato la vita familiare in un business redditizio, spesso mediato da agenzie specializzate in collaborazioni commerciali.
L’esposizione dei minori è un business di cui non possono fare a meno nemmeno gli influencer più seguiti: l’arrivo di un nuovo membro della famiglia è un momento estremamente redditizio perché l’altissima attenzione mediatica, amplificata dall’arrivo di nuovi follower, è il momento ideale per stringere nuovi accordi commerciali con brand dedicati all’infanzia o per lanciare le proprie collezioni. Chiara Ferragni, ad esempio, ha condiviso il primo scatto della piccola Vittoria poco dopo il parto, realizzando uno shooting per la sua linea baby e pre-maman, indossata anche dalla bambina.
Molto spesso i piccoli vengono utilizzati come una vera e propria strategia di immagine: mostrati in un contesto positivo per suscitare empatia, possono dimostrare aspetti della vita personale degli adulti che riflettono valori familiari o di responsabilità, allo scopo di migliorare la loro immagine pubblica. Non è quindi un caso che i figli siano stati al centro dei primi contenuti condivisi dopo lo scoppio dell’affaire pandoro: molto spesso Leone e Vittoria sono stati utilizzati come “scudo” nei momenti di calo della popolarità.
Anche se non è chiaro il motivo per cui la coppia, ora in crisi, abbia deciso di mostrarli solo di spalle, la costante condivisione della loro vita conferma l’importanza dei bambini nello storytelling personale dei genitori. Con milioni di visualizzazioni in gioco, compensi da migliaia di euro e poche regolamentazioni per controllare un mercato sempre più in espansione, è inevitabile che sorgano questioni riguardanti lo sfruttamento dei bambini e il lavoro minorile sui social media.
Contromisure
Per questo, il 21 marzo scorso è stata presentata alla Camera dei deputati da Alleanza Verdi-Sinistra la proposta di legge “Disposizioni in materia di diritto all’immagine dei minorenni”, a firma degli onorevoli Angelo Bonelli, Luana Zanella, Elisabetta Piccolotti e Nicola Fratoianni.
Il testo contiene tre articoli che non solo regolamentano l’esposizione dei minori e i relativi rischi, ma anche la gestione dei profitti ottenuti. Al fine di evitare lo sfruttamento commerciale, viene suggerito di obbligare i genitori a depositare i guadagni in un fondo bancario a nome del minore, al quale questi avrà accesso raggiunta la maggiore età. Inoltre, la legge vorrebbe concedere ai minori, dall’età di 14 anni, la possibilità di richiedere la rimozione dei propri contenuti dal web, garantendo così il diritto all’oblio digitale.
Effetti nocivi
Quali sono però i principali pericoli di questa esposizione, anche per quei profili seguiti solo da una ristretta cerchia di contatti?
Innanzitutto dobbiamo parlare di mancata tutela dell’immagine, dovuta prevalentemente alla perdita di controllo su informazioni e contenuti. Nel momento in cui postiamo un contenuto online dobbiamo sapere che sarà a disposizione di chiunque e non avremo più il controllo su quell’immagine o video. Inoltre bisogna essere coscienti del fatto che oltre il 50% dei contenuti diffusi su siti o gruppi pedopornografici, vengono proprio dai social network.
Questo fenomeno viene amplificato dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale per creare, ad esempio, deepfake, ovvero video o immagini altamente realistiche dei bambini, che vengono manipolate a partire dai contenuti più semplici e spontanei pubblicati sui nostri canali social. Oltre agli aspetti legati alla privacy e alla sicurezza, vi è poi il rischio di un impatto psicologico negativo sui minori, con pressioni sociali che possono influenzare negativamente il loro sviluppo emotivo e identitario, compromettendo l’esperienza genuina dell’infanzia e sovraccaricandoli di aspettative.
Nonostante la visibilità online possa tradursi in opportunità economiche e professionali, si pone un interrogativo etico fondamentale: a quale costo? È imperativo riconoscere i bambini non come mere risorse digitali da monetizzare, ma come individui con diritti e identità propria da proteggere e rispettare.
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