#SenzaGiridiBoa: la campagna social delle donne per dire No al modello Elisabetta Franchi
Dopo le frasi dell’imprenditrice Elisabetta Franchi su donne, maternità e lavoro h24, una sera di qualche giorno fa cinque giornaliste – Sara Giudice, Giulia Cerino, Francesca Nava, Valentina Petrini e Micaela Farrocco – hanno deciso di lanciare una campagna social sotto gli hashtag #senzagiridiboa e #notinmyname. Alla campagna hanno piano piano aderito numerose altre giornaliste, scrittrici, opinioniste, attiviste. Professioniste, lavoratrici insomma. Con e senza figli: Gaia Tortora, Chiara Gamberale, Jasmine Cristallo, Francesca Barra, Cecilia Carpio, Martina Caironi, Francesca Biagiotti, Nuria Biuzzi, Valentina Parasecolo, Chiara Proietti, Carolina Orlandi, Ludovica Ciriello, Chiara Piotto, Valeria Brigida, Giulia Presutti, Alessandra Buccini, Linda Giannattasio, Ambra Orengo, Marina de Ghantuz Cubbe, Chiara Billitteri, Laura Melissari, Caterina Di Nucci, Flaminia Sacerdote, Alessandra Teichner, Mela Ferrentino, Giulia Dedionigi, Arianna Catania, Margherita Martelli, Giulia Ferrari, Carlotta Andracchio, Nina Palmieti, Myrta Merlino, Alice Martinelli, Carlotta Corradi e tante altre (NB: gli uomini che hanno aderito per ora si contano sulla punta delle dita, tra loro c’è Claudio Santamaria). Di seguito il testo della campagna.
“Abbiamo deciso di lanciare una campagna che racchiude in un hashtag i quattro giri di boa citati da Elisabetta Franchi e che segna l’inizio di un percorso molto più lungo per smuovere e scardinare le storture che in questo Paese (inteso come aziende, società civile, politica) si presentano costantemente quando si parla di donne e lavoro.
Quante di noi hanno aspettato prima di avere un figlio perché ‘magari potrebbero licenziarmi o, peggio, sostituirmi con qualcun altro’? Quante hanno pensato che proprio quel figlio, che tanto avevano desiderato, in realtà potesse rappresentare un ‘limite’ alla propria carriera? Quante, ancora, hanno sacrificato parte della loro vita privata e familiare per ‘non deludere le aspettative’ di capi e cape che chiedono di essere performanti h24, con il sotto testo costante ‘se non ci sei tu ne troverò altri cento disposti a regalarmi la loro vita pur di conservare un posto di lavoro’? Tante, troppe. Tanti, troppi.
Con questa campagna abbiamo deciso di non restare in silenzio, di prendere posizione contro chi sostiene pubblicamente e implicitamente che sia più importante l’età anagrafica delle competenze, contro un sistema che spinge a scegliere i lavoratori sulla base del genere e non delle capacità, contro un sistema che teme la maternità (e la genitorialità) senza rivendicare invece un fatto in cui noi fortemente crediamo: un figlio aggiunge e non toglie, mai. O almeno non dovrebbe anche se spesso invece accade.
E accade perché viviamo in un Paese che non offre la possibilità di vivere la maternità (la paternità e la genitorialità) in modo sereno, con il sostegno dovuto e voluto. Una società in cui un padre che fa il padre è un ‘mammo’. Una società nella quale un uomo ‘aiuta’ in casa, come se stesse facendo un favore alle donne e non prima di tutto a se stesso. Una società in cui ti permetti di fare un figlio solo se hai i nonni che ti aiutano o i soldi per pagare le babysitter (e i babysitter) perché non esistono gli asili aziendali e le misure di sostegno al reddito per le famiglie in Italia – nonostante alcuni miglioramenti – lasciano ancora a desiderare.
Crediamo fortemente che un figlio oggi – per chi lo vuole e lo cerca – non sia un fatto privato ma una scelta rivoluzionaria perché procreare è diventata una sfida complicata (sia idealmente che biologicamente). Un figlio per noi è una conquista, una conquista che va rivendicata dall’intera comunità. Il nostro però non è un coro composto solo da madri. È al contrario un grido trasversale che comprende donne con storie diverse e che non si ferma solo al difficile bilanciamento tra lavoro e figli.
Le affermazioni della Franchi fanno male a tutte e a tutti. Anche alle -anta single e senza figli che, secondo l’imprenditrice, sono da assumere solo perché non hanno procreato. Si dà per scontato che, non avendo prole, queste lavoratrici non abbiano altro nella vita per cui uscire dall’ufficio, che non abbiano una vita degna di essere vissuta al di fuori del loro impiego. In più non si considera che oggi il problema è semmai quello opposto: per fare figli si aspettano proprio gli –anta di cui parla la Franchi. Perché negli –enta si sgobba e si fa la gavetta.
Da lavoratrici e da esseri umani, rivendichiamo oggi il diritto al tempo libero. Il diritto di non lavorare e dare la propria disponibilità h24 in nome del presunto successo professionale. Rivendichiamo il diritto di godere del nostro tempo senza essere accusate di poca serietà. Stanche di una narrazione univoca, stanche di sentirci giudicate da un sistema valoriale per cui si è professioniste migliori se si decide di sacrificare tutto in nome della carriera, oggi abbiamo deciso di dirlo con forza: la maternità c’entra poco, il problema è culturale. E anche se vi sentite assolti, siamo tutti lo stesso coinvolti”.
Le testimonianze
Mia mamma aveva 28 anni quando sono nata. Dopo, è tornata al lavoro scegliendo un part time, decidendo liberamente come dividere il suo tempo tra la mia crescita e la sua carriera. Cosí è stato, per lei. Io ho 30 anni. Non sono ancora mamma e non so se lo diventerò. Ma non importa: io voglio essere libera. Libera di fare un figlio o di non farlo. Libera di scegliere a cosa dedicare il mio tempo. Libera di non lavorare 24h e non sentirmi per questo giudicata. Libera di scegliere. Come mi ha insegnato lei.
A 27 anni sono stata assunta nel posto che sognavo. A 30 anni sono diventata giornalista e ho realizzato tutti i servizi che desideravo. Oggi ho 33 anni, sono alla 23esima settimana, sono le ore 22 e sto preparando un’intervista.
Io di figli ne ho fatti due. In carriera. E anche se non li avessi, non darei la mia disponibilità h24.
Qui ero al mio ottavo mese di gravidanza in una pausa tra una diretta e l’altra a Montecitorio… non proprio la persona giusta da assumere essendo per di più sopra gli anta no?
Sono diventata madre dopo gli anta ho lavorato da incinta e ho ripreso quando mio figlio aveva 2 mesi. Sono freelance, zero diritti,sono diventata madre tardi anche per questo. Lei Elisabetta Franchi è l’emblema di questa società arretrata e ipocrita.
Questa foto è stata scattata qualche giorno prima che nascessero le mie due gemelle. Era fine settembre 2020 e rimanere incinta a 40 anni in piena pandemia con un contratto precario non è stata affatto una passeggiata. Ci sarebbe molto da dire. Ma qui ora voglio solo dire che ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno che mi ha tutelata, facendo sì che non rinunciassi al mio lavoro e alle mie aspirazioni professionali.
Questa foto l’ho scattata il 10 marzo 2020, ultimo giorno di lavoro. Inizio della pandemia. Il 28 marzo, diciotto giorni dopo, ho partorito. A 40 anni esatti! Ho fatto tutto per scelta, perché ho avuto la fortuna di fare una gravidanza meravigliosa, in salute, senza complicazioni. Ho potuto lavorare fino alla fine. E dopo che è nato Valerio, ho scelto di stare con lui. Immagino, visto il mondo in cui viviamo, che per qualcuno sono stata e sono meno meritevole di opportunità perché ho anteposto me, Valerio e il suo papà al lavoro, alla carriera. Perché non sono disposta a rinunciare al tempo per noi. Eppure io non sento di avere meno tempo, meno capacità, meno amore da quando sono madre. Ne ho anzi di più. La carriera al massimo mi è negata da chi muove i fili del potere e sceglie chi è meritevole e chi no. Elisabetta Franchi non è l’unica (purtroppo) a pensare ciò che ha detto. Ci sarebbe molto da dire. Questo è un paese ferito e bloccato. Facciamoci sentire.
Undici ore di travaglio, tre epidurali, quattro punti di sutura. No, non voglio tornare dopo due giorni.
Ho 32 anni e niente figli, eppure oggi sono uscita dal lavoro alle 17, mi farò una passeggiata e prenderò in mano un libro.
Il modello aziendale descritto da Elisabetta Franchi è il peggiore che il capitalismo offra, quello in cui tutto è votato alla produzione: il tempo in cui si lavora (h24) e addirittura una scelta di vita come un figlio.