Lorenzo Biagiarelli a TPI: “Ecco perché ho smesso di mangiare carne”
“Ero un grande amante della carne. Poi ho capito che consumarla nuoce non solo agli animali ma anche alla nostra salute e all’ambiente. Cambiare alimentazione si può. È inaccettabile che i grandi chef non si adeguino”
Salvaguardare il pianeta e la nostra salute, cambiando regime alimentare, senza trasformare ogni anno miliardi di animali in merce destinata solo a sfamarci. È questa la sfida lanciata da Lorenzo Biagiarelli, noto social chef e food blogger, nel suo ultimo libro “Ho mangiato troppa carne” (Cairo Editore).
Com’è nata l’idea di questo libro e cosa vuole trasmettere?
«Molte persone mi hanno scritto dicendo che dopo aver letto il libro hanno smesso di mangiare carne. Non vuole essere un manuale, come quelli per non fumare, ma il racconto di un percorso. Ero un grande amante della carne. Poi uno dei motivi di svolta è stato un viaggio in Corea, dove si mangia carne a pranzo e cena. E dove era abbastanza facile trovare ristoranti che servono piatti a base di carne di cane. Ora per fortuna questo consumo è stato messo al bando, ma ci vorrà ancora qualche anno perché sia effettivo. Un’altra scintilla è stata la visione di Dominion, un documentario che racconta la crudeltà dello sfruttamento animale. Ho capito che smettere di mangiare carne era possibile, e ho deciso di raccontare questo cambiamento. Ho cercato di capire cosa comportasse questo largo consumo non solo dal punto di vista etico, ma per la nostra salute e per l’ambiente».
Mangiamo davvero troppa carne?
«Considerando gli animali che vengono uccisi è sempre troppa: basti pensare alla barbarie degli allevamenti intensivi. Se la vediamo dal punto di vista ambientale, cambiando regime alimentare, ridurremmo di molto le emissioni nocive. Ad esempio la dieta mediterranea, che non è neppure la migliore, ridurrebbe di circa 3 gigatonnellate le emissioni di CO2 equivalente all’anno. Una dieta vegana ridurrebbe queste emissioni di gas serra di 8 gigatonnellate, quella vegetariana di 6. Inoltre mangiare troppa carne fa male alla salute, come confermano i dati del Ministero. Secondo il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, ndr) mangiamo circa il doppio della carne rossa che dovremmo assumere a settimana. O ancora, i salumi sono una sostanza cancerogena, come lo è il fumo o l’alcol, ma in pochi ne sono a conoscenza. Ci fregiamo di essere il Paese della dieta mediterranea, ma poi non la segue quasi nessuno. Per questo ho deciso di scrivere un libro che parla della situazione italiana».
È così difficile cambiare abitudini alimentari? E per lei è stata dura?
«Dobbiamo innanzitutto ricordare che il consumo della carne è antichissimo, ma è sempre stato riservato a pochi: chi poteva cacciare o allevare, o aveva il denaro sufficiente per acquistarla. Molti, inoltre, non hanno idea della dimensione del fenomeno: parliamo di 80 miliardi di animali e tre trilioni di pesci uccisi ogni anno. Per me questo cambiamento è stato molto facile in casa, visto che in Italia e nei Paesi del primo mondo non è complicato trovare delle alternative alla carne che permettano di mantenere un’alimentazione sana. Al contrario fuori, viaggiando spesso, è stato più complesso. In alcuni contesti, all’estero, è praticamente impossibile avere sempre un’alimentazione vegana. Cerco comunque di mantenere una dieta vegetariana».
Che ruolo ha o dovrebbe avere il mondo della ristorazione?
«Trovo inaccettabile che nei ristoranti dei grandi chef non ci siano sempre alternative vegane. Qualcosa inizia a muoversi per quanto riguarda le grandi catene: Burger King, ad esempio, sta rendendo tutti i suoi panini “veganizzabili”. Se può farlo un colosso dei fast food, non vedo perché non possa riuscirci uno chef stellato. Le cose potranno veramente cambiare quando sarà molto più facile e democratico trovare alternative alla carne anche nel piccolo supermercato o nel locale in cui andiamo durante la pausa pranzo».
Si parla spesso del problema degli allevamenti intensivi, ma forse non si ha la chiara percezione della gravità del fenomeno.
«Si tratta dell’unico sistema di allevamento dell’Occidente, visto che alle altre forme, come l’allevamento rigenerativo, restano percentuali irrisorie. Bisogna parlarne perché è una questione di sopravvivenza: degli animali, ovviamente, ma anche dell’uomo, perché l’allevamento ci toglie il 77% dei terreni agricoli, assorbe il 30% delle acque dolci globali ed emette almeno il 14% di gas serra, più dell’intero sistema di trasporti. L’allevamento, in definitiva, è il simbolo più genuino del capitalismo. L’ultimo anello della catena non è più l’operaio sottopagato, ma un animale che muore».
Le giovani generazioni sono spesso molto attente alla tutela dell’ambiente. Può essere una spinta anche per rivedere la propria dieta?
«Il fatto che ogni anno aumenti il numero dei vegetariani e dei vegani è sintomo della crescita di giovani consumatori consapevoli. Ma al tempo stesso i giovani affollano il McDonald’s quando ci sono le offerte a 3 euro. Non credo sia solo un fatto generazionale, e non penso che la questione possa essere affrontata solo dal punto di vista ambientale. La chiave è come produciamo il nostro cibo. Non dobbiamo dimenticare che c’è anche il tema dell’agricoltura intensiva. E poi altri aspetti di cui si parla poco, come gli Ogm. Le giovani generazioni possono avere un ruolo fondamentale perché ripensare il sistema dell’allevamento, e quindi la nostra alimentazione, è il primo passo per cambiare l’intera società».
Che ruolo dovrebbe avere la politica?
«Dovrebbe smettere di prendere soldi dai consorzi dei produttori e iniziare a pensare al costo che ha la carne. Se è vero che questo mercato genera in Italia un fatturato di 30 miliardi di euro, c’è da dire che comporta una spesa di 36 miliardi. Bisogna poi tenere conto dell’impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone: si spendono circa 17 miliardi all’anno solo per curare le patologie legate all’eccessivo consumo di carne e alle emissioni di sostanze inquinanti che poi si trasformano in tumori. Per invertire veramente la rotta la politica dovrebbe essere al riparo dall’influenza delle lobby».
Nel libro ha raccolto il parere di numerosi esperti, e ha anche cercato di interpellare altri attori coinvolti in questo sistema, senza però ottenere risposta.
«Non mi ha risposto nessuno, anche se un po’ me l’aspettavo. Avevo dato modo di controbattere a quanto scrivevo, ma nessuno ne ha voluto approfittare. Coldiretti, ad esempio, dopo aver visionato le mie domande, ha detto che erano irricevibili. È evidente che ci sia un doppio filo che lega le associazioni di categoria e la classe produttiva con i processi di decisione politica. Dietro questo silenzio si cela la fragilità di tutto il settore: un motivo in più da parte nostra per fare ancor più rumore e accendere i riflettori su questi temi».
Si è dibattuto molto di carne coltivata, soprattutto nei mesi scorsi. Perché per alcuni è un rischio?
«Lo scontro è tra chi ha interessi economici nella produzione di carne e chi non ne ha. Una moratoria sarebbe totalmente antiscientifica. Il punto è che l’allevamento è uno dei comparti più floridi del nostro Paese. Come in altre faccende, si vanno a difendere gli interessi di pochi, sostenuti da una certa parte politica, che porta avanti una retorica del terrore. Ce ne dovremmo ricordare quando andremo a votare alle prossime europee».
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