Il giro del mondo in quarantena. Se gli italiani all’estero vogliono tornare
Come stanno affrontando il #coronavirus gli italiani all’estero? Come guardano all’Italia? Cosa pensano di fare? Per rispondere, un sondaggio in 60 paesi, dieci domande e un invito: “Lascia il tuo nome se vuoi essere ricontattato per una cena su Skype”.
In qualche ora, mille risposte e trecento inviti a cena nelle case degli italiani in 60 paesi. La maggior parte ha lasciato l’Italia per lavoro, ma c’è anche chi studia e chi vive lontano per motivi personali. Fanno tutti parte di quell’esercito di expat italiani che dal 2006 al 2019 è aumentato del 70%. Se quindici anni fa erano poco più di tre milioni, oggi sono 5,3 milioni, pari alla popolazione della Norvegia e a quasi il 10% di quella italiana. Tutti hanno lasciato il paese, ma in questo momento più della metà vorrebbe essere in Italia.
È un coro di voci unito di chi vive a quattro scali dalla zona rossa, ma non è lontano. Da Tokyo a Melbourne, italiani che “Ho fatto tre abbonamenti a quotidiani italiani per seguire da vicino cosa succede” (Cristina da Yangon) e lombardi che sfidano le dieci ore di fuso orario: “Chiamo anche quattro volte al giorno, mia madre è sola” (Giuseppe da Sydney). Mentre accorciamo le distanze tra le strade delle nostre città incontrandoci in remoto per parlare di come si ripartirà dopo la crisi, si accorciano anche quelle del mondo e si rende possibile un’Italia unita da Parigi a Buenos Aires. Il mondo su Skype sembra più piccolo, giriamolo.
C’è chi ha deciso di tornare, chi aspetta l’evolversi della crisi e chi si sente, ora più che mai, cittadino del mondo. Tutti, in isolamento volontario o forzato, condividono #PensieriInQuarantena su come il virus cambierà le nostre vite.
Eugenia e Matilde, ricercatrici a Parigi (GMT + 1:00). — Mangiano riso in bianco (ma il vino non manca) e si scusano per il disordine – vivono in 30mq e sono in auto-isolamento da due settimane. “Qui il governo si è mosso tardi. Noi abbiamo seguito le direzioni delle autorità italiane.” Hanno approfittato della mezz’ora del discorso di Macron per andare a fare la spesa e trovare meno persone in giro, ma gli scaffali erano già vuoti. Eugenia, che insegna lettere, temeva di dover tenere i corsi nonostante la pandemia. Un mese fa, il monito agli amici francesi per mettersi in guardia da un male evitabile. Per Matilde, i giorni di isolamento sono giorni di cambiamento: “Le immagini dell’Italia mi hanno straziato e ho finalmente capito perché studio il Risorgimento: perché amo il mio paese.” Se una Rinascita italiana ci sarà dopo il Covid-19, Matilde vuole farne parte e ha deciso di tornare a vivere in Italia. Non è la sola dei “cervelli in fuga” a tornare. Nel sondaggio, il 20% ha dichiarato di “aver pensato di voler tornare a vivere in Italia o di essere già tornato”.
Marco, architetto a Tokyo (GMT + 8:00). — Cucina la pasta al pomodoro e centellina il parmigiano (a Tokyo 200g, 10€). Lavora nello studio di Kengo Kuma, uno dei più grandi architetti giapponesi: il suo studio ha realizzato lo Stadio Olimpico di Tokyo 2020 (ora, 2021). “Qui stiamo vivendo come se nulla fosse. Lo stato di emergenza è di facciata: ristoranti e negozi sono aperti e se vuoi andare in palestra, puoi farlo.” Eppure, fino al 23 febbraio, il Giappone era il terzo paese al mondo per numero di contagiati (135), ma a distanza di quasi due mesi i positivi al virus sono 7645 (14 aprile). Nello stesso periodo i malati in Italia sono aumentati da 120 a 159 mila. “Hanno fatto di tutto per non posticipare le Olimpiadi.” Anche ora che il primo ministro Shinzo Abe si è inchinato al rinvio dei giochi, “Continueranno a limitare le informazioni il più possibile e a contenere il numero dei test. Tokyo 2021 è dietro l’angolo.” In ufficio sono una quindicina di italiani, e hanno tutti paura. “La situazione è surreale: non sappiamo se siamo noi ad esagerare, o loro a non rendersi conto.” Il Giappone è il primo paese al mondo per tasso di anziani (seconda, l’Italia): il coronavirus qui potrebbe avere conseguenze devastanti. Marco fa parte dei rispondenti al sondaggio che ritengono inadeguate le misure prese dal paese in cui vivono per tutelare la popolazione contro il virus: sono il 70%.
Gabriele, regista a Los Angeles (GMT – 8:00) — Risponde dal suo appartamento a Hollywood dove scrive family dramas e in questi giorni, si sente in un film con una brutta fine. Trump aveva annunciato che tutti quelli che avessero avuto bisogno di fare un tampone avrebbero potuto farlo gratuitamente. “Ma una mia amica ha tutti i sintomi e fare il tampone è impossibile.” Gabriele è in isolamento volontario da dieci giorni. “È come se stessi in casa per convinzioni personali e non per un dato oggettivo.” Il Governatore della California ha consigliato ai cittadini di restare a casa, ma non c’è alcun obbligo. Nel suo quartiere, c’è la corsa alle armi. “L’America è un paese in cui il patriottismo è molto importate, ma in questi momenti… Ognuno per sé e Dio per tutti.” Mentre parla, ha gli occhi lucidi: “Da quando sono qua, ho perso due nonni e non sono potuto andare ai funerali per motivi economici. In questi giorni, sento lo stesso peso di quei voli che non ho potuto prendere.” Gli chiedo se gli manca casa sua a Palermo: “Casa non è un luogo fisico, ma la possibilità di esprimersi.”
Helodie, giornalista a Santiago del Cile (GMT – 4:00). — È tornata con l’ultimo volo di rimpatrio dal Cile. “Non potevo restare. Non potrei permettermi le cure lì.” In Cile, la sanità privata ha costi esorbitanti (mezzo litro d’acqua in ospedale, 5€) e quella pubblica è fatiscente. “L’hanno abbandonata, come fosse per bestie.” È felice di essere a casa. “Ho rivalutato molto il mio paese. Quando si parla di Italia all’estero, si parla di pizza e sole. Ma dovremmo parlare anche di sanità pubblica gratuita.” Parla della piazza che ha potuto raccontare, ma non salutare. La stessa piazza oggi è recintata. Il governo ha dichiarato lo stato di catastrofe e i militari sono scesi in strada per bloccare gli assembramenti.
R., insegnante di italiano a Santiago, è rimasto. “Ma è essenziale che non mi ammali.” R. sta aspettando un visto di lavoro provvisorio e nell’attesa, è irregolare in Cile. Tornare in Italia avrebbe un costo altissimo (1500€ un volo di solo ritorno) e l’unica possibilità è l’isolamento volontario. Nonostante lo stato di catastrofe, non c’è alcun obbligo di quarantena nella zona di Santiago in cui vive. A Santiago, la quarantena è obbligatoria solamente in pochi distretti: “In parte, i municipi in quarantena coincidono con quelli più ricchi”. Negli altri, i negozi decidono autonomamente se chiudere o restare aperti, mentre i comitati popolari raccomandano la quarantena spontanea. “C’è più fiducia nelle istruzioni dei comitati popolari su WhatsApp che in quelle del governo in TV.” Per molti, ammalarsi significherebbe non potersi curare: in una sanità in cui tutto ha un costo, la prevenzione è chiave.
Cesare, matematico a Manchester (GMT + 0:00). — Nel Regno Unito da quattro anni, torna in Italia una volta al mese per vedere la sua ragazza. Per ora però, non prenderà nessun volo: “Meglio muoversi meno possibile.” Cesare è uno degli oltre 500 ricercatori firmatari della petizione rivolta al governo inglese per aumentare le misure di social distancing con effetto immediato. Contattato dai media inglesi in seguito alla petizione, non ha rilasciato interviste: “È un momento in cui serve essere uniti. Non volevo sollevare polemiche, solo limitare i contagi.” Il governo ha risposto qualche ora dopo e ha invertito la rotta: “Ora hanno dato tutto in mano agli scienziati, anche se, in parte, il danno è fatto.” Purtroppo, anche per lo stesso Boris Johnson. Per Cesare, una volta passato il lockdown servirà un monitoraggio capillare, quasi orwelliano. È stato colpito dalla reazione dell’Italia. “Mi ha colpito e mi sono chiesto: «Voglio invecchiare in un paese che si preoccuperà di farmi sopravvivere, o in un paese che mette davanti il benessere economico?» Tutti i paesi si preoccupano di entrambi, ma in che ordine?” Gli chiedo se vorrà contribuire alla rinascita italiana post Covid-19: “Tutto quello che so, lo devo all’Italia, dove ho potuto studiare gratuitamente senza dovermi indebitare. Se c’è qualcosa che posso fare, non mi tirerei indietro.”
Hanno raccontato le loro storie davanti a una webcam e un caffè italiani in quarantena che guardano all’Italia di oggi con più fiducia di ieri. Da Londra a Shangai, storie a volte dolorose, di chi in questi giorni ha perso il lavoro in una città troppo cara per pagare l’affitto. Infermieri in trincea in ospedali esteri per combattere una battaglia che unisce il mondo (“Possiamo sentirci solo di notte, lavoro sempre”). Rita che ha comprato un biglietto da Varsavia a Cagliari, ma non sa se lo prenderà (“Ho paura di contagiare, ma voglio stare vicino alla mia famiglia.”). Nicola, veterinario, preoccupato per un male che non minaccia soltanto gli uomini e Samuele, in quarantena con la nonna (“Se non mi uccide il covid, mi uccide il colesterolo”). Giulia e Andrea che si sono appena sposati (appena in tempo!) e ragazzi di settant’anni che sono fiduciosi: “La tecnologia ci unisce, la comunicazione ci salva”.