Perché, 40 anni dopo il primo contagio, l’Italia non ha ancora fatto i conti con l’Aids
Sono passati quarant’anni dalla prima diagnosi ufficiale di Aids in Italia: era l’ottobre del 1982, anche se studi successivi dimostreranno retrospettivamente la presenza del virus Hiv a Milano già nel 1979. Da allora il nostro Paese ha contato poco più di 72mila casi di contagio e poco meno di 47mila morti, mentre nel mondo le vittime sono state 35 milioni. È stata, anche quella come il Covid, una pandemia, eppure nella memoria collettiva italiana l’Aids è ancora oggi un nodo irrisolto, una faccenda mai compiutamente elaborata.
Non abbiamo mai fatto davvero i conti con ciò che il virus Hiv ha rappresentato per la nostra società. Forse perché già dagli anni Novanta il contrasto alla malattia si è fatto sempre più efficace, e l’allarme sociale è andato così progressivamente spegnendosi. Ma a mettere in fila fatti, documenti e analisi c’è ora un libro, “L’Aids in Italia (198-1996)”, edito da Pacini e scritto da tre storici: Enrico Landoni, Fiammetta Balestracci e Fabio Guidali.
In occasione della Giornata Mondiale contro l’Aids, ne parliamo con uno degli autori, il professor Landoni, associato di Storia Contemporanea all’Università eCampus di Roma.
«Per lungo tempo parlare di Hiv e di sieropositività equivaleva a parlare di morte. Da una trentina d’anni a questa parte fortunatamente non è più così. Ma l’arrivo delle cure ha anche enormemente abbassato l’attenzione e ha contribuito a far allentare la sensibilità nell’opinione pubblica e la predisposizione alla prevenzione».
«Esatto. Ad esempio, nel dibattito interno alla comunità omosessuale oggi c’è una straordinaria disinvoltura nel non considerare più il profilattico come una barriera semplice ma fondamentale in termini di prevenzione. È vero che adesso, a differenza di un tempo, ci sono le cure, ma il fatto che questa emergenza possa essere tenuta sotto controllo più o meno agevolmente ha completamente destrutturato il piano della percezione, della consapevolezza e dell’importanza di questo tema».
«Credo che le ragioni attengano a due ambiti. Primo: la natura “esotica” del problema. Sia da un punto di vista geografico, perché inizialmente sembrava che il problema riguardasse un contesto molto distante dal nostro, quello degli Stati Uniti, mentre qui in Italia ci si sentiva relativamente al riparo. Sia dal punto di vista sociale, perché, almeno negli Stati Uniti, a essere interessata era prevalentemente la comunità gay, che all’epoca in Italia non era certo oggetto dell’attenzione e della sensibilità che si è andata diffondendosi successivamente e che vediamo oggi. Era considerata come qualcosa che stava ai margini della società».
«A differenza di ciò che accadde negli Stati Uniti, nei Paesi mediterranei in quegli anni il problema dell’Hiv riguardava in prevalenza i tossicodipendenti. Al punto che, in Italia, tossicodipendenza e Aids arrivarono a rappresentare abbastanza rapidamente quasi due facce della stessa medaglia. Non è un caso che da noi si arrivi all’approvazione delle due norme organiche sull’emergenza Aids e sulle droghe proprio nello stesso anno, il 1990, a distanza di poche settimane l’una dall’altra».
«La scoperta fu contestuale all’attivazione della politica, o almeno di alcune parti dello spettro politico italiano, quelle che storicamente erano più attente ai temi del garantismo e delle libertà, come radicali, socialisti, liberali. Quei livelli impressionanti di contagio furono scoperti mentre si indagava sul sovraffollamento delle carceri: è curioso notare come si scoprì l’entità del problema Aids facendo un’indagine su un aspetto di politica securitaria. E ciò apre almeno tre filoni di riflessione: quello dell’assenza della sanità pubblica, quello delle condizioni di vita nelle carceri e quello della correlazione fra tossicodipendenza e configurazione di reati, quindi dell’opportunità o meno di depenalizzare certi comportamenti».
«Indubbiamente. Ma anche la comunità scientifica. Sono andato a guardare tutti i verbali dell’epoca del Consiglio Superiore di Sanità e dell’Istituto Superiore di Sanità: fino a tutto il 1984 non c’è un solo verbale con un ordine del giorno che affronta il tema dell’Aids».
«È doloroso da sottolineare, ma è così. A un certo punto l’Istituto Superiore di Sanità nel bollettino epidemiologico afferma sostanzialmente: è vero, c’è questa emergenza, ma noi ne sappiamo nulla, se qualcuno armato di buona volontà vuole aiutarci siamo qui. Dimostrazione di impotenza ma anche di ritardonell’attivarsi sul fronte della ricerca, della investigazione».
«Quelli che per primi si occuparono del fenomeno, con risultati straordinariamente importanti, furono il gruppo di Mauro Moroni e Massimo Galli al Sacco di Milano, o anche Giovanni Rezza all’Istituto Superiore di Sanità. Erano scienziati che si muovevano lavorando sul territorio e ragionando sulla base degli elementi che avevano acquisito all’interno del loro raggio di azione. Ma a livello centrale mancò il coordinamento. Lo dicono i documenti: le nostre strutture di sanità pubblica a livello centrale non si fecero trovare pronte. l’iniziativa su lasciata ai singoli gruppi di lavoro».
«Da storico so bene che la storia non si può fare con i se e con i ma. Certo però una maggiore reattività avrebbe potuto contribuire a diffondere più consapevolezza dell’importanza della prevenzione o comunque a far conoscere la natura del problema».
«In altri Paesi, come Francia e Inghilterra, il picco era già alle spalle e la curva già in fase di rallentamento. Da noi, invece, in quello stesso momento c’era una crescita impressionante: si passò dai 37 casi del 1984 ai 1.685 del 1988. L’Italia era nel pieno dell’emergenza».
«Bisogna considerare la complessità della situazione. Certo i profondi convincimenti religiosi, etici e ideologici di alcuni decisori politici e di alcune istituzioni giocarono un ruolo molto importante, ma dobbiamo considerare che affermazioni che oggi possono risultarci aberranti all’epoca avevano un livello di accettabilità molto più alto».
«Scrisse anche una lettera a tutti gli italiani per indicare nella castità, nella monogamia e nella «normalità» della vita familiare i rimedi più efficaci al dilagare dell’Hiv. Ma, va detto, fu anche il ministro che per primo finanziò le ricerche di base sull’Aids, che attivòil Centro operativo Aids e che allestì la commissione nazionale di esperti sull’Aids coinvolgendo le menti più brillanti, come Fernando Aiuti o Guido Rondanelli. Fu il primo che attivò una politica di ampio respiro dopo gli interventi spot che c’erano stati fino al giorno prima. Donat-Cattin è una figura complessa».
«Se analizziamo certe affermazioni dei settori più conservatori, come l’arcivescovo Siri a Genova, che parlò dell’Aids come di un castigo di Dio, non c’è dubbio che l’influenza della Chiesa fu negativa. Ma ci furono alcune realtà di base anche importanti, come l’Azione Cattolica di Milano, che presero posizioni ferme e chiare, dicendo: “Smettetela di considerare i sieropositivi e chi si ammala di Aids come vittime delle loro stesse pulsioni e quindi meritevoli di questo castigo”».
«Vero. Ma nelle sue prese di posizione non c’era un attacco personale ai malati di Aids. Al di là del messaggio generale della Chiesa, che predica castità ed è contraria all’uso dei contraccettivi, ci fu un aspetto, che riguardava la singola persona umana, su cui invece i toni furono stemperati. La realtà della Chiesa era complessa: c’erano gli ultras reazionari, c’era Chiesa dura sui precetti ma che non aveva gli stessi toni nei confronti delle singole persone e c’erano poi posizioni molto più aperte come quelle dell’Azione Cattolica o del cardiale Martini a Milano».
«Soprattutto in riferimento alla fase iniziale del fenomeno Aids, si registrarono forti divisioni all’interno della comunità scientifica. Un po’ come quando, durante l’emergenza Covid, vedevamo in televisione tre virologi che sostenevano cinque punti di vista diversi. Un’altra analogia è nella difficoltà della politica, che rincorre oggi come allora».
«Nel 1985 se la politica si attiva rispetto all’emergenza Aids è perché a Brescia la malattia uccide un bambino di tre anni: quella notizia ha un impatto enorme sull’opinione pubblica, ed è solo per quello che la politica si muove. Tuttavia, devo dire che nello studio di quegli anni emerge anche come la classe dirigente dell’epoca fosse di tutt’altra pasta rispetto a quella di oggi. Le faccio un altro esempio: a Teramo un bambino, figlio di un malato di Aids, venne escluso dall’asilo su pressione dei genitori degli altri bambini; ebbene, il ministro Donat-Cattin impose con durezza l’immediata riammissione del piccolo e il ripristino dell’immediata attività didattica facendo appello alla solidarietà. Nel dibattito politico attuale non ho sentito prese di posizione così forti».
LEGGI ANCHE: Verità negate: dalla Lombardia a Palazzo Chigi, ecco chi ha mentito nella prima fase del Covid