L’ebola uccide più donne che uomini
In Africa Occidentale finora ci sono stati 3mila casi di ebola. Di cui oltre 1.500 mortali. Il 75% delle vittime sono donne
“Il 75 per cento delle persone infette dall’ebola sono donne”, ha detto il ministro della parità di genere e dello sviluppo in Liberia Julia Duncan-Cassell. Tre malati su quattro sono di sesso femminile.
Questo squilibrio “di genere”, ha affermato il ministro, è dovuto principalmente al ruolo che la donna riveste nella società africana. Il fatto che in Africa occidentale siano principalmente le donne a occuparsi della preparazione dei funerali e del mantenimento della casa, della famiglia e dei malati, le rende più esposte al contatto con animali e liquidi corporei che possono trasmettere il virus.
Le donne sono la maggior parte del personale del settore sanitario, tra gli ambulatori e gli ospedali: un esercito di ostetriche, infermiere e addette alle pulizie. Sono sempre le donne quelle che si occupano del piccolo commercio e quindi ancora una volta più esposte al rischio di contrarre il virus.
La discrepanza tra queste cifre è dovuta anche alla stigmatizzazione e all’isolamento al quale sono costretti i malati di ebola (o chi entra in contatto con loro). Una volta contratto il virus, le persone contagiate e le loro famiglie, in quanto soggetti a rischio, sono immediatamente sottoposte alla quarantena, venendo di fatto isolate dal resto della comunità. Il che vale soprattutto nelle aree rurali più povere colpite dal virus, dove è difficile procurarsi cibo e medicinali. Anche per queste ragioni, quasi la metà dei casi non denuncia la propria condizione.
L’ebola, nel frattempo, non accenna a fermarsi. Lo scorso 25 agosto ha raggiunto anche la Repubblica Democratica del Congo, dove nel villaggio di Djera sono stati individuati i primi due casi. Oggi, seppure il virus rimanga circoscritto nella zona di Boende, a nordovest del Paese, sono già 31 le vittime accertate. Dopo Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone, il virus continua la sua espansione nell’Africa occidentale.
Il 2 settembre 2014 il presidente internazionale di Medici senza frontiere (Msf) Joanne Liu, in un discorso davanti alle Nazioni Unite, ha detto che i leader mondiali stanno fallendo nell’affrontare la peggiore epidemia di ebola della storia.
La scorsa settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato l’allarme di 20mila possibili casi di ebola in tutta l’Africa occidentale. Secondo gli ultimi dati diffusi sarebbero 3.500 i contagi e più di 1.900 morti. Un dato, però, che per diverse organizzazioni umanitarie sarebbe comunque sottostimato, visto che a questi numeri andrebbero aggiunti i contagi e le morti non confermate dai test di laboratorio.
Anche le donne che non contraggono l’ebola possono pagare un caro prezzo, venendo isolate dal resto della società. Kumbah Fayiah è una vedova liberiana. Due settimane fa suo marito è morto di ebola. “Sono così stanca di vivere per il modo in cui guardano me e la mia famiglia. Nessuno ci viene a trovare, persino i nostri amici hanno paura di venire a farci visita”, ammette con dolore Kumbah.
Anche Siah è una giovane vedova liberiana: vive in una delle più povere aree della comunità di St. Paul Bridge, nel nordovest della Liberia, e si ritrova, dopo la morte del marito, con sette figli a carico e nessuna entrata economica. La famiglia di Siah sta pagando sulla propria pelle lo stato d’emergenza in cui versa la Liberia: gli spostamenti sono difficili e la paura sembra aver paralizzato i villaggi vicini. Tutti, anche gli amici più stretti, temono il contagio e si guardano bene dal frequentare l’abitazione della donna. Siah non ha l’elettricità né cibo a sufficienza.
Il costante espandersi dell’epidemia sta mettendo a dura prova le strutture sanitarie, che si trovano con personale e fondi ridotti, e devono far fronte a un’emergenza senza precedenti. Nel più grande ospedale della Liberia gli infermieri sono in sciopero da oggi per chiedere attrezzature migliori e maggiore protezione.
In Liberia c’è un medico ogni 86mila persone (sono 51 i dottori in totale per 4.4 milioni di persone), mentre in Sierra Leone ce n’è uno ogni 45mila: questo costringe i dottori a non poter ricoverare pazienti affetti da malattie comuni. Gli ospedali stanno esaurendo rapidamente la strumentazione essenziale, come guanti in lattice e cloro, aumentando i rischi di contagio.
Lo sa bene Yamah Kettor, un’infermiera di 26 anni della clinica Wonjal Smith Memorial, in Liberia. La struttura dove lavora rischia la chiusura per mancanza di risorse. “Siamo davvero terrorizzati, ma non vogliamo chiudere perché nella clinica sono ricoverate più di 500 persone della comunità”, racconta. “Abbiamo utilizzato le nostre risorse per comprare i medicinali, mettendo insieme i soldi per poterceli permettere”, aggiunge Yamah.
ActionAid è presente in Liberia, Sierra Leone e Nigeria, e insieme ad alcuni partner locali è in prima fila per arginare l’emergenza dell’ebola. L’approccio adottato dall’organizzazione è quello di partire dai soggetti più colpiti, le donne, che hanno un ruolo chiave nella prevenzione e nella cura dei bambini.