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Il primo maggio di piazza Taksim

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La festa violata dei lavoratori turchi

L’anno scorso, superati i vigorosi controlli di sicurezza all’ingresso di piazza Taksim, nel frastuono di musica e comizi, un mio amico spagnolo mi disse (anzi urlò): “Mai visto niente di simile”. Si riferiva, tra le migliaia di bandiere che coprivano la marea di gente festante e orgogliosa, a quelle di Fenerbahçe e Beşiktaş: “Mai visti gruppi di tifosi di calcio alla manifestazione del Primo Maggio”.

A Madrid non si usa, a Roma in effetti neanche. Ma la Festa dei Lavoratori a Istanbul è speciale anche per questo: tutti vogliono marcare la propria appartenza, mostrare di esserci. Sindacati grandi e piccolissimi, curdi e attivisti di sinistra, e pure ultras che, a vederli la domenica, non si direbbe. Intorno a noi, schiacciati dalla folla e travolti dal suo entusiasmo, era davvero una grande festa.

Il frastuono, quest’anno, è stato ancora più forte. Ma in piazza non c’è neppure arrivato. Un muro di polizia ha frenato in partenza, nei quartieri limitrofi, il flusso umano che voleva celebrare il Primo Maggio a Taksim. Un divieto motivato con i controversi lavori di rinnovamento e pedonalizzazione della piazza: piena di cantieri com’è, sosteneva il governatore di Istanbul Hüseyin Avni Mutlu, non avrebbe permesso di garantire le condizioni minime di sicurezza. Per l’opposizione, invece, era una questione di volontà: i 50mila manifestanti previsti non sarebbero stati poi così ingestibili in un crocevia che ogni giorno viene attraversato da un milione e mezzo di persone.

Difficile pensare però che sarebbe pouta andare peggio di com’è stata. Ieri sera, si contavano una ventina di feriti – per lo più dimostranti ma anche qualche poliziotto -, mentre negli occhi degli istanbulioti restavano le immagini di una città trasformata in campo di battaglia e le lacrime dei gas di cui le forze dell’ordine – ieri come sempre – non hanno fatto certo economia nel respingere e disperdere i manifestanti. Si erano riuniti a Şişli e Mecidiyeköy ma anche a Beşiktaş, a pochi chilometri di distanza, quelli che volevano festeggiare il Primo Maggio a Taksim. E lì sono stati fermati.

Ma non è solo una provocazione, o un vezzo, volersi riunire proprio lì. Non è solo che rappresenta il centro simbolico e turistico della città. Per più di trent’anni, lì il Primo Maggio non si è potuto festeggiare. Da quando nel ’77 si consumò uno dei più feroci massacri che la Turchia recente ricordi: 34 manifestanti uccisi dalle pallottole sparate contro la folla da mano rimasta ignota, anche se la matrice politica di estrema destra è ormai acclarata. Una Portella della Ginestra turca consumata non in una remota campagna ma nel cuore di Istanbul, nei giorni già bui del terrore alla vigilia di quelli nerissimi della dittatura militare.

Solo nel 2010, e proprio dal governo Erdoğan che ieri (e ancora oggi) ne ha benedetto la chiusura, la piazza è stata riaperta alle celebrazioni del Primo Maggio. Una festa di democrazia che quest’anno è stata negata, lasciando spazio a una guerriglia che riporta alla memoria giorni lontani. Anche ieri il mio amico avrebbe potuto dire di non aver mai visto niente di simile. Ma stavolta, credo, non con lo stesso sguardo ammirato.

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