Palma da olio: okay con una filiera sostenibile
L’olio di palma, uno dei grassi vegetali più impiegati al mondo, è ritenuto pericoloso sia sotto l’aspetto ambientale che salutistico. Ma le critiche sono tutte a ragion veduta? Una risposta potrebbe essere quella invece di far passare il messaggio di una filiera sostenibile
Articolo pubblicato da StradeNuove.net
Olio di palma sì, anzi no… Fa male, forse, non si sa… Insomma uno dei tanti tormentoni molto simili al più noto This is the question? di shakespeariana memoria. E che spesso non hanno ancora trovato una risposta univoca. Proviamo allora a capire di cosa parliamo quando si tratta di olio di palma. Intanto ci riferiamo al prodotto ottenuto dalla spremitura della polpa dei frutti di specie di palme appartenenti alla famiglia delle Arecacee ed in particolare ai generi Elaeis (E. oleifera) e Attalea (A. maripa e A. speciosa), coltivata per il 57% (40 milioni/ton) in Indonesia e per il 29% (20 milioni di ton) in Malesia con una crescita anche in Tailandia, Nigeria, Guatemala e Colombia. In base a fonti FAO si tratta dell’olio vegetale più prodotto al mondo (35%, pari 71 milioni di tonnellate) seguito da quello di soia (26%), colza (15%), girasole (9%), con i consumi a livello mondiale rappresentati per il 44% da Indonesia, India ed Europa. I frutti contengono una percentuale in olio compresa tra il 30 – 35% e una singola pianta permette di ottenere 40 kg di olio, circa 3 – 4 tonnellate/ha.
E poi ci possiamo chiedere, cosa c’è dietro questa levata di scudi contro l’olio di palma? Tre tendenzialmente sono i fattori individuati che lo mettono in cattiva luce. In primo luogo le campagne di comunicazione delle aziende alimentari, a forte presa sui consumatori, che puntano sempre più su prodotti caratterizzati da termini quali free, senza (zucchero, lattosio, caffeina, ecc) a basso contenuto, ecc. In secondo luogo un approccio ambientalista/sostenibile che identifica la palma da olio come l’unico responsabile della spinta deforestazione in atto nelle zone di coltivazione e della perdita di biodiversità. In terzo luogo un aspetto nutrizionale e salutistico che lo bolla come dannoso per la salute umana.
Nonostante tra i consumatori risaltino più gli aspetti negativi che quelli positivi, la produzione di olio di palma è fortemente aumentata essendo passata dai venti milioni di tonnellate del 2000 agli attuali settanta milioni. Inoltre le stime della FAO indicano come la domanda di olio di palma sia cresciuta per soddisfare la domanda di oli vegetali.
Per fare una disamina più attenta è necessario confrontare la palma con le tre principali specie oleifere coltivate a livello mondiale, soia, colza e girasole. Innanzitutto a differenza di quanto si potrebbe pensare la superficie mondiale investita a palma da olio (22 milioni di ettari) la relega al quarto posto dietro soia (121 milioni ha), colza (33 milioni ha), girasole (26 milioni ha) anche se in termini di produzione si attesta al secondo posto con 76 milioni di tonnellate staccata nettamente dalla soia (300 milioni/ton) e prima di colza (66,5 milioni/ton) e girasole (45 milioni/ton).
Per valutare la sostenibilità (soprattutto ambientale) della palma e per il calcolo delle emissioni di CO2 ci vengono in aiuto due indicatori delle prestazioni ambientali, la Carbon Footprint (analisi dell’impronta di carbonio) e l’Ecological Footprint (analisi del consumo delle risorse e del suolo).
Indicatori che necessitano di una fase preliminare nella quale vengono suddivise le singole colture ed i paesi dove sono maggiormente coltivati, le rese in granella (soia, colza, girasole) e in olio (anche la palma).
In base ai dati emersi per la palma la resa dei frutti è di 17 ton/ha in Malesia e 19 ton/ha in Indonesia mentre quella una in olio rispettivamente di 3,7 e 2,8 ton/ha. Ciò permette di collocarla in una posizione migliore, rispetto per esempio, alla soia coltivata in Argentina (3,33 ton/ha di granella e 0,37 ton/ha di olio), alla colza (2,24 ton di granella, 0,58 ton di olio) e al girasole coltivato Ucraina che raggiunge rese di 2,56 ton/ha di granella e 0,67 ton/olio.
Altri elementi dei quali è stata valutata l’incidenza sulle emissioni sono quelli di coltivazione, in particolare le operazioni colturali, per i seminativi (aratura, affinamento del terreno, semina, trattamenti, raccolta meccanica), per la palma (controllo delle infestanti, trattamenti fitosanitari, raccolta), e l’impiego di fertilizzanti (azoto, fosforo e potassio) e di pesticidi. Da quest’ ultimi si deduce quanto la palma sia efficiente in termini di input di fertilizzanti (47 Kg/ton olio) rispetto alla soia (315) e colza (99) ma anche pesticidi (2 Kg/ton olio per la palma. 29 per la soia e 11 per la colza).
Dai dati ottenuti moltiplicati per i fattori di emissione (materie prime, lavorazioni, trattamenti, trasporti) del ciclo di vita delle singole colture è emerso quanto le emissioni della palma siano sensibilmente minori (0,45 t CO2 eq/t olio) rispetto alla soia (2,89) alla colza (2,87) e al girasole (1,18).
Un altro aspetto che gioca a favore della palma, come è stato possibile osservare grazie all’Ecological Footprint, risiede nella minore superficie necessaria per la produzione di una tonnellata di olio rispetto ad altre colture. La palma necessita infatti di appena 0,5 ha a differenza, per esempio, della soia che richiede 3 ha. Per valutare comunque nella sua globalità tutti gli scenari della filiera della palma sono state considerate anche le emissioni di CO2 causate dalla deforestazione. Numeri che fanno schizzare i valori precedentemente ottenuti a 3,6 ton CO2/ton olio all’anno, ai quali va aggiunta la capacità di assorbimento del carbonio pari a 1,26 ton CO2/ton olio che sommate alle emissioni in campo raggiungono 2,85 t CO2/ton olio. Quindi perché la filiera della palma l’olio di palma possa essere definita realmente sostenibile, è necessario soprattutto che non impatti sulle superfici forestali (le coltivazioni non vadano a scapito delle foreste).
Il problema della deforestazione non è comunque da attribuire alla sola palma da olio, ad esempio fonti FAO ci dicono che appena l’11% degli incendi che hanno interessato l’Indonesia siano riconducibili alla coltivazione della palma. Ma anche ad altre colture, come dimostra il caso del Brasile, dove per rispondere alle sempre maggiori richieste di soia a livello mondiale, sono state deforestate – spesso grazie agli incendi – numerose superfici forestali dell’Amazzonia.
Dal punto di vista della salute umana, possiamo dire che l’olio di palma non è più dannoso rispetto ad altri grassi saturi. Si è vista infatti l’assenza di correlazione tra l’assunzione dell’acido palmitico (circa il 50 % del contenuto dell’olio di palma) e il rischio di patologie coronariche ed oncologiche. Inoltre l’impiego di olio di palma permette di eliminare acidi grassi trans (TFA) negli alimenti. A vantaggio dell’olio di palma anche il fatto dell’impiego nell’ industria alimentare per motivi legati alla tecnologia: resistenza ad elevate temperature e all’ ossidazione, stabilità, maggiore conservabilità.
Per rendere ambientalmente sostenibile la filiera della palma da olio è nata la Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO) che riunisce tutti gli attori della filiera: agricoltori, trasformatori, venditori, associazioni non governative. L’organizzazione si è dotata di tre certificazioni volontarie, P&C, Indipendent Smallholder Standard, Supplay Chain Certification Standard. Le prime due mettono in atto criteri per garantire la non deforestazione, di non sviluppare nuove piantagioni su torbiere, il divieto di utilizzo di incendi quale pratica per la deforestazione, la protezione dei diritti umani dei lavoratori e di garantire loro un salario di sussistenza, la terza interessa tutta la filiera. Le certificazioni RSPO hanno permesso di ottenere una produzione con un impatto del 35% inferiore sul riscaldamento globale e del 20% inferiore sulla perdita di biodiversità.
Anche l’Italia, con l’Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile, si è mossa per la creazione di una filiera della palma da olio che risponda a determinati requisiti ambientali e che veicoli un messaggio diverso.
Una conduzione sostenibile della filiera della palma da olio garantisce vantaggi in termini ambientali con una riduzione degli input energetici richiesti dalla coltivazione e delle superfici ad esso destinate, permette inoltre un adeguato impiego del prodotto finale (l’olio), equilibra l’intera filiera (dal terreno al punto vendita) e non crea storture mediatiche agli occhi dei consumatori veicolando messaggi non sempre corretti e quindi veritieri.