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Home » Ambiente

Il nuovo nucleare? “Si creeranno 117mila posti di lavoro in Italia”

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Uno studio stima che se l’Italia sviluppasse un programma nucleare in ambito Ue si innescherebbe un impatto positivo sul Paese da oltre 50 miliardi di euro al 2050. E i reattori arriverebbero a generare il 10% dell’elettricità

Lo sviluppo del “nuovo nucleare” in Europa e in Italia potrebbe avere un impatto positivo sul nostro Paese da 50,3 miliardi di euro entro il 2050, una cifra pari al 2,5% del Pil attuale. E potrebbe creare  117mila posti di lavoro tra occupati diretti e indotto. La stima è contenuta in un recente studio realizzato da Edison, Ansaldo Nucleare e TEHA Group (The European House Ambrosetti), dal titolo “Il nuovo nucleare in Italia per i cittadini e le imprese: il ruolo per la decarbonizzazione, la sicurezza energetica e la competitività”.

Già oggi in Italia ci sono una settantina di aziende che operano nella filiera industriale del nucleare, per un fatturato complessivo vicino al mezzo miliardo di euro e circa 2.800 addetti.

Secondo l’analisi di Edison, Ansaldo Nucleare e Teha, la decisione assunta ufficialmente lo scorso marzo dalla Commissione europea di puntare sugli Small Modular Reactors potrebbe attivare un mercato potenziale da oltre 20 miliardi di euro per le imprese italiane entro il 2050. E se anche il nostro Paese attivasse un proprio programma di sviluppo sugli SMR si aprirebbero ulteriori opportunità per circa 25 miliardi.

In totale, quindi, il “nuovo nucleare” potrebbe dare impulso a un mercato da 46 miliardi di euro per la filiera tricolore. E i relativi investimenti potrebbero generare un valore aggiunto da 14,8 miliardi di euro. A questi andrebbero aggiunti 35,5 miliardi di euro di «benefici indiretti e indotti», tra le catene di fornitura che si metterebbero in moto e l’aumento dei consumi che si innescherebbe. Si arriva così ai 50,3 miliardi di euro calcolati come impatto complessivo sul Sistema Paese.

Quanto alle ricadute occupazionali, lo studio prevede che con il “nuovo nucleare” nel nostro Paese si verrebbero a creare direttamente 39mila posti di lavoro nella filiera, più altri 78mila tra occupati indiretti e indotti: complessivamente sarebbero quindi 117mila i nuovi posti di lavoro attivati.

Prospettive di metà secolo
Secondo le stime elaborate dall’associazione di categoria continentale NuclearEurope e dall’Alleanza europea per l’energia nucleare, a metà di questo secolo l’energia atomica potrebbe arrivare a rappresentare un quarto della produzione di elettricità nel territorio dell’Unione europea (a fronte dell’attuale 22%) con una capacità installata complessiva di 150 gigawatt, di cui il 40% generato dai mini-reattori, il 37% da nuove centrali di larga scala e il 23% da centrali già oggi esistenti. In questo scenario, si potrebbero attivare quasi 300 miliardi di euro di investimenti per la filiera industriale europea associati allo sviluppo degli SMR.

Anche il Governo italiano ha elaborato delle previsioni sulle potenzialità di crescita del “nuovo nucleare” nel nostro Paese. Nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec) aggiornato lo scorso giugno l’esecutivo scrive che – se in Italia si tornasse a fare uso della tecnologia nucleare –

nel 2050 l’11% della domanda di elettricità potrebbe essere soddisfatto da reattori (percentuale che potrebbe salire a 22% se si sfruttasse interamente il potenziale massimo installabile).

Ad una conclusione arriva anche lo studio di Edison, Ansaldo Nucleare e Teha, secondo cui nel 2050 in Italia l’energia nucleare potrà contribuire fino al 10% della domanda di energia elettrica. La stima, in questo caso, è stata fatta ipotizzando l’installazione di circa 15-20 reattori modulari di piccola taglia a partire dal 2035.

Considerando una taglia media dell’impianto pari a 340 megawatt, a metà secolo sarebbero previsti dai 5,1 ai 6,8 gigawatt di capacità di “nuovo nucleare”, il ché permetterebbe la generazione di circa 42-57 terawattora all’anno di copertura della domanda elettrica.

Indipendenza
«Il nuovo nucleare rappresenta una delle fonti energetiche più sicure ed affidabili per indirizzare l’autonomia strategica», si legge nello studio.

L’importanza di questo aspetto è emersa in tutta la sua forza negli ultimi due anni e mezzo: dopo l’invasione russa dell’Ucraina, in Europa – specialmente in Italia e Germania – è aumentata la consapevolezza su quanto sia fondamentale la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Ebbene, nell’analisi di Edison, Ansaldo Nucleare e Teha si sottolinea come il nucleare sia una delle fonti energetiche più sicure e affidabili. 

In particolare, viene evidenziato come negli Stati dell’Ue dotati di reattori sul proprio territorio nazionale il tasso di dipendenza energetica – che misura quanto un Paese dipende dall’estero per soddisfare il proprio fabbisogno energetico – risulta essere in media del 51,5%, a fronte del 71,7% degli Stati che non fanno ricorso al nucleare.

Se si guarda poi al tasso di dipendenza elettrica, nei Paesi senza nucleare esso è pari al 15,1%, mentre nei Paesi con nucleare è addirittura negativo: -4,4%. 

Analogo discorso si può fare per le materie prime. Il Gruppo Teha ha classificato i principali Stati produttori e i detentori di riserve di combustibili energetici in base al rischio geopolitico ad essi associato: rispetto a gas e carbone, l’uranio – utilizzato come combustibile nella fissione nucleare – si distingue come quello i cui Paesi produttori sono geopoliticamente più stabili.

Quasi un quarto della produzione mondiale di uranio (24,2%) è concentrato in nazioni a bassissimo rischio geopolitico come il Canada e l’Australia, mentre un ulteriore 54,4% è in mano a Paesi con rischio geopolitico medio, che però da decenni si rivelano partner affidabili per il settore nucleare europeo.

E per quanto riguarda le riserve di combustibili, indice della potenziale produzione futura, il vantaggio a favore dell’uranio appare ancora più netto: l’Australia e il Canada dispongono infatti del 41% delle riserve mondiali, mentre un ulteriore 22% si trova in Namibia e Kazakistan.

Decarbonizzazione
Il nucleare è stato inserito dalla Commissione europea fra le tecnologie «a zero emissioni strategiche ed essenziali» per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Ue: riduzione delle emissioni nette di gas climalteranti rispetto al 1990 del 55% entro il 2030, del 90% entro il 2040 e del 100% entro il 2050.

I reattori, in effetti, non producono alcun tipo di inquinante atmosferico. Tanto che Nuclear for Climate stima che la sostituzione dei combustibili fossili con l’energia atomica a partire dal 1970 abbia ridotto l’immissione di gas serra in atmosfera di circa 60 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica, contribuendo a prevenire circa 1,84 milioni di morti legate all’inquinamento atmosferico.

Nello studio di Edison, Ansaldo Nucleare e Teha si fa notare come, considerando l’intero ciclo vita, il nucleare è in grado di limitare le emissioni a un volume pari a circa 5,8 grammi di anidride carbonica per kilowattora prodotto, un livello inferiore di 79 volte rispetto al gas naturale. Ma, sempre considerando l’intero ciclo di vita, i reattori risultano meno impattanti dal punto di vista ambientale anche rispetto alle rinnovabili: in particolare, rispetto al fotovoltaico e all’eolico permettono una riduzione delle emissioni rispettivamente equivalente a 39,7 e 8,9 grammi di anidride carbonica per kilowattora prodotto.

Co-generazione
Nel 2021 le imprese elettrivore in Italia erano 3.757, per un valore aggiunto di 44,8 miliardi di euro. Nel nostro Paese i settori energivori – su tutti chimica, cemento, vetro e ceramica – sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni di gas a effetto serra e dei consumi finali di energia. Queste aziende sono alimentate ancora per il 95% da combustibili fossili (principalmente gas naturale).

Il “nuovo nucleare” potrebbe rappresentare un punto di svolta da questo punto di vista. I piccoli reattori modulari in via di sviluppo, infatti, saranno in grado di produrre non solo elettricità ma anche calore industriale e idrogeno decarbonizzati.

Gli SMR potranno co-generare calore al servizio delle imprese  raggiungendo temperature fino ai 300 gradi centigradi, mentre gli AMR potranno arrivare anche a 950 gradi. L’industria cartaria, che necessita di temperature fino a 200 gradi, potrebbe quindi essere completamente decarbonizzata, mentre l’industria chimica, che spesso necessita di calore oltre i 500 gradi per attivare le reazioni endotermiche, potrebbe sfruttare il “nuovo nucleare” per migliorare la sostenibilità dei suoi processi.

Come fonti di elettricità e calore programmabile e a basse emissioni, i mini-reattori consentiranno inoltre di produrre idrogeno alimentando su base continuativa gli elettrolizzatori con il vapore ad alta temperatura che generano. L’idrogeno che si origina dal nucleare potrebbe raggiungere un livello di efficienza di produzione pari a 45%, superando il 40,4% ottenibile con le fonti termiche tradizionali e il 16,3% del solare. 

L’idrogeno “nucleare” – che a marzo 2023 è stato incluso dalla Commissione europea – tra le fonti low carbon – può essere impiegato in vari settori industriali, dai trasporti pesanti alla chimica fino al siderurgico. 

«Gli SMR, essendo di piccola taglia e avendo sistemi di sicurezza passivi, in caso di fermo dell’impianto si arrestano e raffreddano in autonomo. Rispetto alle centrali tradizionali, quindi possono essere posizionati più vicini ai centri abitati e soprattutto ai distretti industriali, fornendo servizi energetici supplementari come calore e vapore», sottolinea Lorenzo Mottura, Executive Vice President Divisione Strategy, Corporate Development & Innovation di Edison.

«I piccoli reattori, in particolare, potrebbero prendere il posto delle attuali centrali a gas dislocate sul territorio nazionale che arriveranno a fine vita utile tra il 2030 e il 2035». «Il Paese – aggiunge Mottura –  si trova a un bivio: continuare investire sul gas oppure convertire le vecchie centrali al nucleare? È evidente che, si optasse per la seconda soluzione, si riuscirebbe in un colpo solo a produrre energia elettrica e a decarbonizzare interi settori industriali “hard to abate”».

È in questo contesto che lo scorso luglio  Edison, Ansaldo Energia, Ansaldo Nucleare e la società elettrica francese Edf hanno siglato un Memorandum of Understandin con Federacciai che mira a «utilizzare l’energia nucleare per migliorare la competitività e decarbonizzare il settore siderurgico italiano».

L’accordo poggia su due leve: da un lato, la possibilità di sfruttare l’interconnector tra Italia e Francia (collegamento ad altissima tensione in corrente continua tra i due Paesi) a beneficio delle imprese italiane produttrici di acciaio; dall’altro, esplorare le opportunità di coinvestimento in nuovi reattori nucleari modulari nel nostro Paese. Così l’acciaio italiano carbon neutral potrebbe presentarsi al mercato come un prodotto premium rispetto ai suoi principali concorrenti europei.

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