Con un miliardo di mascherine al mese in Italia è allarme ambientale: a rischio flora e fauna
È sufficiente l'abbandono in natura anche solo dell'1% delle mascherine totali utilizzate ogni mese per produrre un accumulo di ben 40mila kg di plastica. TPI ne ha parlato con Claudia Brunori di Enea e Andrea Minutolo, responsabile scientifico Legambiente.
Con il graduale ritorno alla normalità di tutte le attività umane, oltre all’inevitabile incremento dell’inquinamento atmosferico, delle acque e del suolo, ci tocca monitorare un nuovo rischio. Quello provocato dall’incivile abbandono dei dispositivi di protezione individuale. Mascherine monouso e guanti gettati per strada che inevitabilmente a causa del vento finiscono poi in mare con rischi letali per la fauna. Considerando le stime di Ispra e politecnico di Torino, in Italia il fabbisogno di mascherine si aggira su 1 miliardo di dispositivi al mese.
Secondo uno studio del Politecnico di Torino, sarebbe sufficiente l’abbandono in natura anche solo dell’1% delle mascherine totali utilizzate ogni mese (l’equivalente di ben 10 milioni di mascherine) per produrre un accumulo di ben 40mila kg di plastica, un dato davvero allarmante. Ad oggi, in un caos generale tra produzione e vendita delle mascherine, la maggior parte di quelle che usiamo è prodotta per non essere riciclabile in nessun modo: finiscono direttamente nei pochi termovalorizzatori italiani che stanno già sopportando maggiori carichi di rifiuti legati alla pandemia da Covid-19.
Per la giornata mondiale dell’Ambiente, TPI ne ha parlato con Claudia Brunori di Enea, responsabile per l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile di ambiente e con Andrea Minutolo, responsabile scientifico Legambiente.
“Le stime sono impressionanti. Il problema non riguarda tanto la gestione dello smaltimento, perché essendo materiali leggeri inciderebbero poco, quanto il fatto che se anche solo una minima parte di questi rifiuti non venisse gettata nel modo giusto, ci ritroveremmo con miliardi di pezzi sparsi per l’ambiente”, avverte Minutolo. “I guanti sono composti da materiali plastici, di gomma o di lattice, non degradabili, sono molto leggeri e si frammentano facilmente. Una volta nell’ambiente e non correttamente smaltiti, si potrebbero frammentare e diventare delle microplastiche che ci metterebbero centinaia di anni per degradarsi del tutto. Questi elementi così piccoli sono spesso ingeriti dagli animali perché li scambiano per cibo, con rischio soffocamento e il rischio di restare nell’ambiente – mare o terra – per anni”.
“Guanti e mascherine, secondo le disposizioni attuali, vanno buttati nei rifiuti indifferenziati”, prosegue Minutolo. “Non ci sarebbe un danno se la filiera fosse seguita alla perfezione. La realtà però ci dice una cosa diversa: le persone buttano frettolosamente il guanto nel cestino stracolmo, o addirittura a terra, come si fa per i mozziconi di sigaretta. Sollecitiamo le persone a un maggior senso civico, perché quella disattenzione può innescare veri problemi ambientali. Bisogna spingere per l’utilizzo di mascherine riutilizzabili. Almeno questo ridurrebbe il danno, perché al momento si parla di un miliardo di mascherine usa e getta al mese e a fine anno ci troveremmo con decide di miliardi di mascherine da smaltire con tutte le problematiche del caso”.
Per i guanti il discorso è più complesso e come ci spiega Minutolo riguarda i materiali utilizzati: “Si sta ragionando su materiali compostabili o biodegradabili, ma il problema è che, essendo prodotti destinati all’indifferenziato, sarebbe quasi uno spreco farli in materiale pregiato e compostabile se poi il loro destino è quello di finire nell’inceneritore”.
Per quanto ci dice l’Ispra e il ministero dell’Ambiente non c’è un rischio in realtà che l’attuale sistema non è in grado di smaltire le mascherine. Quello che come Enea stiamo cercando di fare è cercare di capire come da una potenziale criticità si possa passare a una grande possibilità. Questa è la transizione verso un approccio all’economia circolare”, afferma Claudia Brunori.
L’approvvigionamento delle mascherine: una nuova filiera
“Le mascherine saranno necessarie anche nel medio-lungo termine, come Paese siamo vulnerabili perché non abbiamo l’autonomia di approvvigionamento. Anche con la riconversione di alcune attività produttive che è stata finanziata in questi ultimi mesi non si riesce ancora ad essere autonomi. L’idea è ragionare per promuovere e supportare una filiera made in Italy, che quindi ci rende meno vulnerabili al mercato internazionale e dall’altra parte diventa una possibilità occupazionale. È importante soprattutto partire fin da subito mettendo a sistema tutti gli attori della filiera. Da chi produce a chi distribuisce, a chi gestisce la raccolta, fino a chi smaltisce il materiale per renderlo riutilizzabile. La materia prima non deve mai diventare lo scarto”, prosegue Brunori.
“Bisogna ripensare un oggetto che sia monomateriale. Le attuali mascherine chirurgiche sono composte da diversi strati di tessuto/non-tessuto poi c’è l’elastico, il nasello. Il nemico del riciclo economicamente sostenibile è l’oggetto multi-materiale. E allora semplifichiamo e cerchiamo di disegnare oggetti che siano più razionali. Per l’uso civile l’idea è realizzare mascherine riutilizzabili al cui interno va un filtro monouso. I filtri non dovranno andare nell’indifferenziata, ma devono essere raccolti in maniera separata con dei raccoglitori intelligenti collocati nei supermercati, fuori alle farmacie, alle scuole etc. I raccoglitori devono poter fare una sanificazione istantanea del filtro inserito. Ma soprattutto devono avere la capacità di riconoscere il filtro con un sistema low cost e fare in modo che sia abbinato a una sorta di premialità per chi conferisce il filtro”, spiega Brunori.
“Enea si è mossa subito. La filiera per le mascherine e il primo progetto pilota potrebbe partire già dopo l’estate. Diversi attori hanno mostrato interesse. Nell’arco di pochi mesi, si potrebbe veder realizzato un primo progetto pilota nella zona di Bergamo e Brescia che è anche una zona simbolica e l’area dove sono collocati gli attori privati con cui stiamo ragionando: Radici group, Santini e Nextcan, come impianto di riciclo”, conclude Brunori.
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