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Home » Ambiente

“La lotta al dissesto territoriale non basta. Bisogna anche ridurre le emissioni”

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Gianni Silvestrini, ex direttore generale del ministero dell’Ambiente (dal 2000 al 2002), già ricercatore del Cnr e oggi direttore scientifico del Kyoto Club. Credit: AGF

"La transizione green è un’opportunità: con l’auto elettrica +6% di occupazione. Ma bisogna investire per sviluppare l’industria pulita". Intervista a Gianni Silvestrini

Gianni Silvestrini, dopo le trombe d’aria e gli incendi delle ultime settimane, la premier Meloni ha annunciato un grande piano contro il dissesto idrogeologico. Ma intanto le risorse sono state stralciate dal Pnrr. Come valuta le mosse del Governo sul tema del cambiamento climatico?
«Vedo molta confusione. Come ricordava lei, sono state tolte le risorse del Pnrr per la lotta al dissesto territoriale. Ma non è solo questo: l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’Energia e il Clima, ndr) è stato timido. E il ministro Pichetto Fratin dice che “non sa” quanto il cambiamento climatico sia dovuto all’uomo: una frase che crea confusione nel cittadino».

Ma un piano contro il dissesto idrogeologico sarebbe una buona cosa, no?
«Certo. Una seria politica di lotta al dissesto territoriale sarebbe un bene. Ma le politiche di adattamento non bastano: bisogna anche ridurre le emissioni di gas climalteranti».

Non sembra questa, però, la priorità del Governo…
«Il Governo ostacola la transizione ecologica perché non l’ha capita. E soprattutto non ha capito le opportunità che la transizione porta con sé. In maniera ottusa, si oppone alle proposte che fa l’Ue, ma così mette in difficoltà le imprese italiane».

Di quali opportunità parla?
«Pensiamo alla mobilità elettrica. C’è uno studio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia secondo cui, se l’Italia fosse impegnata seriamente nell’accompagnare la transizione, entro il 2030 potremmo avere un +6% di posti di lavoro rispetto a oggi».

E invece…
«E invece al Parlamento europeo il Governo italiano ha fatto una battaglia di retroguardia sui biocarburanti. E alla fine l’ha persa, facendo il gioco della Germania, che invece ha ottenuto quello che voleva: il via libera agli e-fuels».

Sulle auto elettriche, come sulle rinnovabili, l’obiezione classica è: spingere in quella direzione significa mettersi nelle mani della Cina, che ne produce i componenti e gestisce le materie prime…
«Tre anni fa l’Ue ha lanciato la European Battery Alliance per favorire la costruzione di gigafactory nei Paesi membri: oggi ce ne sono programmate più di venti. E poi c’è l’evoluzione tecnologica: molte case automobilistiche occidentali, ad esempio Volkswagen, stanno passando da batterie in nichel cobalto a batterie in ferro fosfato, che consentono di limitare l’utilizzo di terre rare. Nel medio periodo si svilupperà in Europa una forte industria che si reggerà sul riciclo e il recupero di pannelli fotovoltaici e delle batterie… Non si capisce allora perché in Italia non si debba investire nello sviluppare un’industria della mobilità elettrica. Manca la visione, purtroppo. Ma sono convinto che, a dispetto delle resistenze del Governo, l’industria italiana troverà un suo ruolo nella transizione. Magari con più difficoltà e più tempo, perché non ha il sostegno della politica, ma la strada è quella». 

È realistico pensare a un’economia totalmente alimentata da energie rinnovabili?
«Centinaia di pubblicazioni scientifiche lo dicono. La Germania punta al 100% di elettricità da rinnovabili entro il 2035. Oggi, grazie all’evoluzione della tecnologia e della normativa, possiamo ambire a obiettivi che prima potevano sembrare impossibili. Pensiamo all’agrivoltaico, all’eolico offshore, alle comunità energetiche: fino a pochi anni fa non c’erano queste soluzioni. Oggi sì: c’è una possibilità di accelerazione che prima non c’era». 

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