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Home » Ambiente

La crisi del clima è ormai anche una crisi umanitaria

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credit: Alessandro Bianchi - Reuters

Milioni di profughi scappano per i cambiamenti del clima, ma i Paesi più ricchi e inquinanti continuano a investire per limitare i flussi migratori anziché in finanziamenti green. L'articolo sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 28 ottobre

Mentre milioni di persone sono in fuga in tutto il mondo dalla crisi climatica, i sette Paesi più sviluppati che sono responsabili del 48% delle emissioni storiche di gas serra del mondo hanno speso collettivamente tra il 2013 e il 2018 almeno il doppio per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione (oltre 33,1 miliardi di dollari) rispetto ai finanziamenti per il clima. A questi dati rivelati dall’ultimo Dossier Statistico Immigrazione, si aggiunge poi una stretta commistione tra le imprese che fanno affari con i confini e le multinazionali che inquinano di più.

Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr una persona su 78 nel mondo è costretta a lasciare la propria abitazione: 3 su 4 a causa degli effetti dei cambiamenti climatici di origine antropica. Alla fine del 2021, il mondo contava 89,3 milioni di migranti forzati, otto punti percentuali in più rispetto all’anno precedente.

L’invasione russa dell’Ucraina, avvenuta lo scorso 24 febbraio, (che ha provocato uno degli esodi forzati di più ampia portata dalla Seconda guerra mondiale) e altre emergenze tuttora in corso nel pianeta, hanno portato il dato degli sfollati a superare la drammatica soglia dei 100 milioni, vale a dire oltre l’1 per cento della popolazione globale. Secondo i dati della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, proprio i due Paesi in guerra producono il 12 per cento di tutte le calorie alimentari importate ed esportate a livello globale, controllando insieme il 29 per cento dell’export totale di grano, il 19 per cento delle esportazioni di mais e il 78 per cento di quelle di olio di girasole.

I principali Paesi importatori di grano, invece, sono Bangladesh, Egitto, Iran, Turchia, grandi Stati cui se ne aggiungono altri più piccoli, attraversati da gravi crisi economiche e politiche, come Libano, Yemen, Libia, Tunisia, anch’essi fortemente condizionati dalle scorte di Mosca e Kiev. Proprio questa dipendenza alimentare ci riporta a uno scenario simile a quello del 2011, quando l’aumento del prezzo dei cereali e la conseguente fame a cui furono sottoposte le popolazioni della maggior parte degli Stati del Medio Oriente, ne provocarono il loro malcontento poi sfociato nelle rivolte denominate “primavere arabe”.

Oggi, dunque, non solo la guerra in Ucraina minaccia di aumentare ulteriormente la spinta migratoria dagli Stati che si trovano sulla sponda Sud del Mediterraneo, ma, se si guarda agli ultimi dati diffusi dal ministero dell’Interno sui flussi migratori verso l’Italia, si scopre che le nazionalità dichiarate dai migranti in arrivo sono riconducibili ai Paesi che maggiormente stanno soffrendo la pressione dei cambiamenti climatici. Tra il 2021 e il 2022 tra i primi Paesi di origine, infatti, troviamo: Tunisia, Egitto, Bangladesh, Afghanistan, Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Guinea, Pakistan e Iran. Aree del pianeta che sono anche allo stremo per la siccità intervallata da forti alluvioni, per l’innalzamento delle temperature oltre la media del resto del mondo e per le conseguenti carestie che stanno affamando decine di milioni di persone. «Ingiustizia climatica e ingiustizia sociale si saldano e la migrazione diventa l’unica strategia di adattamento per chi non ha altra alternativa che fuggire dalla povertà in tutte le sue forme», spiega Luca Di Sciullo, presidente del centro studi Idos che ogni anno pubblica il Dossier Statistico Immigrazione, la più completa fonte italiana in materia. «Non basta evitare i conflitti per risolvere la questione delle migrazioni forzate; è anche necessario imparare a convivere in maniera più sostenibile con il nostro pianeta, rovesciando l’attuale modello di sviluppo e ragionando concretamente sul diritto a migrare».

Tra guerre e ambiente

«Circa la metà della popolazione mondiale, più di tre miliardi di persone, vive in aree fortemente vulnerabili agli stress climatici, che però non si abbattono su tutte le comunità allo stesso modo. L’impatto dell’uragano Katrina, che ha distrutto New Orleans, per esempio, non è sicuramente paragonabile a quanto può accadere con il passaggio di un ciclone in un villaggio del Bangladesh, che spazza via in molti casi ogni prospettiva di vita», ragiona Maria Marano, ricercatrice dell’associazione A Sud onlus che nel 2007 ha dato vita in Italia al primo Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca). Marano, qualche giorno fa, ha pubblicato un saggio all’interno del Dossier Statistico Immigrazione 2022 redatto ogni anno da Idos e dall’Università San Pio V, in cui sostiene, dati alla mano, che «la mappa dei Paesi più vulnerabili alla crisi climatica si sovrappone ormai alla mappa dei Paesi che vivono situazioni di conflitto e guerra e alla mappa dei Paesi dai quali le persone sono in fuga». Non solo. La ricercatrice dice a TPI che «nella complessa relazione tra azioni militari e crisi climatica, se quest’ultima può essere la concausa di un conflitto armato, o contribuire a inasprire guerre già in atto, esplose per la gestione di risorse naturali strategiche, come acqua e suolo, è vero anche il suo contrario, ossia che i conflitti hanno un costo importante in termini climatici, principalmente per le emissioni di gas a effetto serra». Eppure, continua: «proprio le emissioni militari restano fuori dai trattati internazionali sul clima. Lo stesso Accordo di Parigi ha lasciato alla discrezionalità degli Stati la loro inclusione negli obiettivi di riduzione delle emissioni». A questo dato si aggiunge il fatto, conclude Marano: «che la risposta all’accoglienza dei profughi ucraini è stata diversa da quella comunemente riservata a chi fugge da Africa e Medio Oriente. Proprio la crisi ucraina avrebbe dovuto far comprendere che una altra gestione della migrazione è possibile; invece, si è marcata la discriminante della nazionalità tra chi bussa alle porte della fortezza Europa, sulla base di valutazioni fatte su fattori geopolitici piuttosto che umanitari».

Affari della frontiera

Di più: se sovrapponiamo i dati di “Global Climate Wall”, un rapporto del Transnational Institute (Tni) del 2021 che ha sede ad Amsterdam, con la fotografia più recente scattata dal Dossier Statistico Immigrazione 2022, si nota che le stesse compagnie e imprese multinazionali destinatarie di appalti miliardari per la difesa e la sicurezza delle frontiere, Airbus, Leonardo e Thales, sono anche quelle maggiori produttrici di gas serra legati al complesso militare/industriale. Così, allo stesso modo, le compagnie armate statunitensi profondamente coinvolte nella militarizzazione dei confini, tra cui Lockheed Martin e Raytheon, sono responsabili di grandi volumi di emissioni di gas a effetto serra. Esiste una relazione profonda tra le società produttrici di combustili fossili e quelle che si definiscono gli appaltatori della frontiera; ed entrambe le realtà esercitano una profonda influenza sui governi attraverso le attività di lobbying.

Secondo i ricercatori di Tni: «La medesima sinergia tra le società di combustibili fossili e i principali appaltatori di sicurezza alle frontiere può essere notata anche attraverso i loro consigli di amministrazione, dove molte delle stesse persone siedono nei consigli di amministrazione dell’altro». È il meccanismo delle porte girevoli, sostengono dal Transnational Institute: «che poi consente a società come Exxon Mobil, British Petroleum e Royal Dutch Shell di siglare contratti miliardari con società che si occupano di fornire sorveglianza, dati biometrici e database lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, all’interno del Delta del Niger o lungo le sponde del Mar Mediterraneo». E che permette, legittimamente si intende, «ad un consigliere dell’Eni, come l’analista Nathalie Tocci, di contribuire allo stesso tempo, come consulente, a redigere la strategia globale dell’Ue per quanto riguarda l’esternalizzazione delle frontiere».

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