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Home » Ambiente

Cosa fare per fermare la crisi climatica: parlano i ricercatori italiani

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Venezia in ginocchio per l'acqua alta nel 2019, la marea peggiore dal 1966

I cambiamenti climatici sono stati protagonisti assoluti di questo 2019. Ma le parole non sono bastate fin ora e basteranno sempre meno. Tre esperti dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima hanno parlato a TPI di ciò che li preoccupa per il futuro – e cosa possiamo fare per evitare una catastrofe annunciata

Lo slogan della Cop25, la conferenza sul clima che a dicembre 2019 ha riunito a Madrid i rappresentati di quasi tutti gli Stati al mondo per parlare delle misure da implementare in risposta all’emergenza climatica, era “Time for Action”. Ironico, considerata l’inadeguatezza delle risposte date dai governi nella capitale spagnola al termine di un anno che – tra fenomeni metereologici estremi sempre più ricorrenti, incendi da record e il crescente movimento globale contro il cambiamento climatico – ha visto il tema piantare le tende nel bel centro del dibattito pubblico (e del nuovo parlamento europeo).

Che l’attività umana abbia prepotentemente cambiato il corso naturale del clima è chiaro fin dal secolo scorso. Mai come prima, però, si sente l’impellenza di fare qualcosa al riguardo, mentre monta l’ansia che sia troppo tardi – come, d’altronde, i dati sembrano indicare. Cosa si intende esattamente, però, con “fare qualcosa”?

TPI ne ha discusso con due ricercatrici e un ricercatore che si occupano di diversi aspetti e ripercussioni dei cambiamenti climatici per l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, principale centro del Consiglio nazionale delle Ricerche per quanto riguarda lo studio dell’atmosfera, dell’oceano e dei loro processi – nonché l’impatto del clima sulla salute, l’ambiente e i beni culturali.

Susanna Corti

Ricercatrice, si occupa dell’origine antropica dei cambiamenti climatici.

TPI: Quali sono, secondo lei, le convinzioni più errate che il pubblico ha sul cambiamento climatico?

SC: Una fra le più comuni e quella per cui il cambiamento climatico corrente non è da considerarsi eccezionale perché il clima della Terra è variato anche in passato per cause naturali. Il clima terrestre ha subito grandi variazioni nel corso della storia del nostro pianeta. Tuttavia, i cambiamenti avvenuti negli ultimi 150 anni – dall’inizio della rivoluzione industriale – sono stati eccezionali per entità e soprattutto per la velocità degli stessi.

Si è fatta strada la “diceria” che il clima terrestre si stia “riprendendo” dalle temperature più fredde del periodo noto come “Piccola Era Glaciale” (1300-1500 d.C) e che le temperature attuali siano le stesse del Periodo caldo medievale (900-1300 d.C). Prima di tutto, vi è molta incertezza riguardo le temperature del lontano passato, comunque c’è una netta e fondamentale differenza fra quei periodi e l’attuale: sia la Piccola Era Glaciale che il periodo di riscaldamento medievale non furono variazioni climatiche globali, ma hanno coinvolto solo alcune regioni della terra. Negli ultimi 2000 anni, l’unica volta in cui il clima in tutto il mondo è cambiato contemporaneamente e nella stessa direzione è stato negli ultimi 150 anni, quando oltre il 98 percento della superficie del pianeta si è riscaldata.  La velocità del cambiamento dal 1880 a oggi è stata circa 0,07 gradi per decennio, ovvero da 5 a 10 volte maggiore rispetto a quando la terra si è “ripresa” dall’ultima glaciazione. E come se non bastasse questa velocità, già cospicua, è raddoppiata negli ultimi quaranta anni.

Il riscaldamento climatico attuale è per la maggior parte di origine antropica, ovvero legato alle attività umane, in particolare a quelle che contribuiscono al rilascio di gas a effetto serra in atmosfera. Di questi il più rilevante è il biossido di carbonio (CO2) che è il principale prodotto della combustione ed è emesso in quantità sempre maggiori dall’inizio dell’era industriale ad oggi. I gas serra riscaldano la superficie del pianeta assorbendo la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre.

Un altro luogo comune è quello per cui se la temperatura media del pianeta è in aumento a causa del cambiamento climatico, questo significa che ovunque faccia più caldo e che ogni anno sia giocoforza (e ovunque) più caldo del precedente. Questa idea è sbagliata.

Prima di tutto un aumento della temperatura media del pianeta non implica che ogni regione sia caratterizzata dallo stesso aumento. Dal periodo pre-industriale ad oggi l’aumento medio globale di temperatura è stato di circa 1 grado, ma in area artica per esempio è stato almeno tre volte più ampio. In alcune regioni la temperatura aumenta più velocemente che in altre, la temperatura sulle terre emerse aumenta più velocemente di quella degli oceani. Inoltre, la tendenza ad aumentare della temperatura non significa che un anno è sempre più caldo del precedente. Esiste infatti una variabilità climatica naturale che su scale temporali brevi (per esempio quella annuale) può in parte mascherare la tendenza all’aumento. Se si considerano medie a più lungo termine (dell’ordine di 5 anni o più) troveremo invece che sì ogni periodo successivo è più caldo del precedente. Per esempio, la temperatura media degli anni 2014-2018 è più alta di quella degli anni 2010-2014, anche se la temperatura media del 2010 è stata maggiore di quella del 2014 e l’anno più caldo di tutti finora è stato il 2016. Ma non dappertutto nel mondo. Insomma, non sono una stagione più calda o una più fredda nella nostra città che dovrebbero far pendere l’ago della bilancia dell’opinione pubblica fra “che caldo impossibile, è tutta colpa del riscaldamento globale!” oppure “riscaldamento globale, ma dove ma quando, qui fa un gran freddo!”.

TPI: Qual è il singolo fenomeno che più la preoccupa, a livello nazionale e internazionale?

SC: Faccio fatica a pensare a un singolo fenomeno che dovrebbe rappresentare la priorità della politica. E faccio molto fatica a distinguere il livello nazionale da quello internazionale. Questo è un problema globale (anche se si presenta con caratteristiche diverse da regione a regione) e va affrontato e condiviso da tutta la comunità degli abitanti della Terra.

Il cambiamento climatico ha un impatto enorme in molte regioni del mondo. I ghiacci polari si stanno sciogliendo e il livello del mare si sta innalzando. Ciò in futuro provocherà inondazioni ed erosione delle aree costiere.

I paesi poveri in via di sviluppo potrebbero essere tra i più colpiti. Questi paesi sono anche i più vulnerabili perché le loro popolazioni spesso dipendono fortemente dall’ambiente naturale e spesso non hanno le risorse minime per far fronte al cambiamento climatico. In alcune regioni, gli eventi meteorologici estremi e le precipitazioni stanno diventando più frequenti. Ciò può comportare in futuro maggiori inondazioni e ridurre la qualità dell’acqua, ma anche ridurre la disponibilità di risorse idriche.

In Europa meridionale e centrale aumenteranno le ondate di calore e siccità. In particolare, l’area del Mediterraneo sta diventando più secca, cosa che la renderà ancora più vulnerabile alla siccità e agli incendi. Le aree urbane sono esposte a ondate di calore, inondazioni o innalzamento del livello del mare, ma spesso non sono attrezzate per adattarsi ai cambiamenti climatici.

I danni alla proprietà, alle infrastrutture e alla salute umana comportano costi elevati per la società e l’economia. In particolare, i settori che dipendono fortemente da determinate temperature e livelli di precipitazione come l’agricoltura, l’energia e il turismo sono particolarmente colpiti.

Alcune specie animali e vegetali saranno ad aumentato rischio di estinzione se le temperature medie globali continueranno ad aumentare senza controllo.

Dove sta la priorità? Credo che sia doveroso prendere atto del fatto che questi problemi sono già reali e agire subito. Si tratta di assumere un impegno attivo nella transizione verso la sostenibilità sia nella produzione di energia, che nei processi produttivi (industriali e agricoli) e nella mobilità.

TPI: Ci sono diverse stime, più o meno allarmanti, rispetto a “quanto tempo” abbiamo prima che il cambiamento climatico diventi irreversibile: a quale credere?

SC: Non sappiamo quanto tempo abbiamo e non sappiamo esattamente per quale soglia di temperatura media globale il cambiamento sarà irreversibile. Alcuni cambiamenti già avvenuti sono oramai irreversibili. È per esempio molto improbabile che i ghiacciai che si sono sciolti in Groenlandia e nell’Antartide potranno essere ripristinati. Diciamo che più il pianeta si riscalda più ci avviciniamo a condizioni potenzialmente pericolose. Se il riscaldamento rispetto al periodo preindustriale supererà i 2 gradi, la probabilità di entrare in un vicolo senza uscita caratterizzato da una serie di disastri ambientali a catena è molto alta. Per questo motivo l’accordo di Parigi sul clima del 2015 (COP21) ha posto come obiettivo quello di restare ben al di sotto di questa soglia e fare ogni possibile sforzo per restare sotto gli 1,5 gradi.

Allora la domanda è: siamo già arrivati a +1 grado rispetto al periodo preindustriale con un ritmo nell’ultimo mezzo secolo di circa 0,2 gradi per decennio, quanto tempo ci resta per mettere in atto le misure necessarie per decelerare, fermarci e invertire la tendenza prima di raggiungere gli 1,5 gradi?

A questo proposito forse avrete sentito parlare del fatto che resterebbero 12 anni di tempo per intervenire con misure di mitigazione.

Questo numero risale a un anno fa, nel 2018 quando il Comitato intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) ha pubblicato un rapporto in cui descrive cosa sarebbe necessario per impedire alla temperatura globale di aumentare di oltre 1,5 gradi. Il rapporto spiega che i paesi dovrebbero ridurre le loro emissioni antropiche di anidride carbonica, come ad esempio quelle provenienti da centrali elettriche e veicoli, a zero intorno nel 2050. Per raggiungere tale obiettivo le emissioni di CO2 dovrebbero iniziare a diminuire “ben prima del 2030” ed arrivare circa al 45 percento rispetto alle attuali intorno al 2030.

Il traguardo di zero emissioni entro il 2050 è in realtà l’obiettivo vero del rapporto, ma agire ora è fondamentale per essere in grado di raggiungerlo. Infatti, poiché per questo è necessario trasformare il sistema di produzione a livello mondiale, si tratta di una trasformazione enorme e se non si sarà cominciato nel corso del decennio 2020, sarà pressoché impossibile raggiungere l’obiettivo a un costo ragionevole. Ecco il perché di tanta urgenza. E nel frattempo gli anni sono diventati 11… Quindi è davvero necessario cominciare a darsi da fare.

TPI: Quali consigli darebbe per contribuire al rallentamento del fenomeno – ai singoli quanto alla politica e alle aziende?

SC: L’obiettivo è quello di raggiungere il traguardo delle zero emissioni globali entro il 2050. Per raggiungerlo l’impegno deve essere comune, da parte dei singoli cittadini, delle imprese e ovviamente dei governi e tutto ciò da subito. Sarà necessario rendere più efficiente l’utilizzo dell’energia (sia per il riscaldamento/raffreddamento, sia per la mobilità) e allo stesso tempo investire su fonti di energia rinnovabile per diventare sempre più indipendenti dai combustibili fossili. Come cittadini dovremo cercare di cambiare il nostro stile di vita cercando di limitare il nostro personale utilizzo di combustibili fossili e il consumo eccessivo di prodotti la cui produzione è direttamente collegata all’aumento di emissioni. La carne è uno di questi sia perché gli allevamenti intensivi liberano metano, un altro gas serra, sia perché il processo produttivo di produzione è energeticamente molto dispendioso.

Giampietro Casasanta

Ricercatore, si occupa dell’Impatto dei cambiamenti climatici sulla salute.

TPI: Quali convinzioni comuni sul cambiamento climatico trova più dannose?

GC: Mentre l’idea che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento globale sembra essere oramai largamente accettata, mi pare che in occidente sia ancora molto diffusa l’opinione secondo cui l’impatto dei cambiamenti climatici sulla vita personale della popolazione sarebbe tutto sommato moderato. Questa convinzione, oltre ad essere con tutta probabilità errata, è anche pericolosa, perché potenzialmente in grado di rallentare le strategie di mitigazione e adattamento rendendoci meno preparati a vivere in un mondo più caldo. Per citarne una, si stima che la resa agricola di grano, riso, mais e soia – che costituiscono approssimativamente i due terzi del consumo calorico umano – possa diminuire rispettivamente del 6%, 3%, 7% e 3% per ogni grado di aumento di temperatura, a fronte di una domanda che è prevista crescere a un tasso del 14% ogni decennio nei prossimi trent’anni. Ecco, supporre che questo, così come una pletora di altre probabili conseguenze, non abbia ripercussioni sulla vita quotidiana mi sembra quanto meno ottimistico.  Anche senza chiamare in causa meccanismi più complessi, mi pare che una temperatura più alta faccia già abbastanza danni di per sé anche solo per semplice aumento di intensità e frequenza degli eventi estremi: per dare qualche numero, alle estati eccezionali del 2003 in Europa e del 2010 in Russia sono attribuiti, rispettivamente, 70 e 55 mila decessi; limitandoci invece alle città italiane, si stima che in 23 di esse le ondate di calore abbiano causato circa 24000 morti nel periodo 2005-2016. Tutto considerato, direi che non mi sembrano cifre basse.

TPI: L’Italia, in questo, come viene toccata? E come dovrebbe reagire?

GC: In tutta l’Europa del sud, Italia inclusa, i cambiamenti climatici stanno già causando un cospicuo aumento degli eventi estremi, dalle ondate di calore alla siccità, e sono associati a un peggioramento della qualità dell’aria e a un aumento del rischio di incendi. In generale, l’Italia più di tutti dovrebbe moltiplicare gli investimenti in ricerca e sviluppo, in cui il Paese continua ad impegnarsi pochissimo, mentre più in particolare dovrebbe porre attenzione allo sviluppo di piani di mitigazione e adattamento diffusi ed efficaci, con particolare riferimento agli ambienti urbani, dove vive la maggior parte della popolazione.

Elisa Palazzi

Ricercatrice, si occupa dello studio delle interazioni e dei processi che legano il clima al sistema terra.

TPI: Quale, secondo lei, dovrebbe essere la priorità della politica – a livello nazionale e internazionale?

EP: Contrastare il cambiamento climatico agendo anzitutto sulle cause, ciò che si definisce “mitigazione”, dovrebbe essere una priorità della politica. Questo implica operare una immediata e consistente riduzione delle emissioni di gas serra antropici in atmosfera e quindi, in primo luogo (ma non solo), passare dal produrre energia usando fonti fossili a farlo usando fonti rinnovabili. Mi preoccupa, quindi, il non rispetto degli impegni presi a livello nazionale internazionale per la riduzione delle emissioni dei gas climalteranti in atmosfera. Questo genera altre preoccupazioni, legate alla difficoltà di far fronte (non solo con la mitigazione, ma anche con l’adattamento) ai rischi connessi ai cambiamenti climatici in atto.

TPI: Come rallentare il fenomeno?

EP: Direi semplicemente di seguire le strade che la scienza delinea: ovvero la mitigazione e l’adattamento. La mitigazione, in particolare, ha una forte componente anche individuale che non va sottovalutata sia perché un grande risultato si ottiene anche dalla somma di tante piccole cose che non richiedono neppure chissà quale sforzo, sia perché le buone pratiche sono contagiose! Alle aziende direi di intraprendere un percorso di decarbonizzazione spinta. Alla politica direi semplicemente di rispettare gli impegni presi, e di considerare l’emergenza climatica davvero come una priorità. Allo stesso tempo è necessario intraprendere la strada dell’adattamento per far fronte a tutte quelle situazioni già in atto o che inevitabilmente ci ritroveremo ad affrontare nel prossimo futuro (ad esempio costruire barriere contro le inondazioni, o adeguare le colture a situazioni climatiche diverse rispetto a quelle cui eravamo abituati).

TPI: Guardando soltanto all’Italia, quali misure ritiene che andrebbero adottate con urgenza? Quali scenari si aprono di fronte a noi in caso di continuata apatia?

EP: Per l’Italia valgono gli stessi impegni presi per lo meno a livello Europeo. In Italia, tuttavia, non è ancora stato discusso concretamente un piano legislativo ed economico che ponga le basi per politiche ambientali di contrasto al cambiamento del clima e che guardino al lungo termine. Eppure, l’Italia e più in generale la regione del Mediterraneo sono un hot-spot climatico, ovvero un’area estremamente vulnerabile ai cambiamenti del clima e agli impatti ad essi connessi. In Italia si sta già in parte sperimentando un’estremizzazione del clima caratterizzata da aspetti solo apparentemente in contraddizione: prolungate siccità da un lato (con i conseguenti problemi nel settore agricolo, di approvvigionamento idrico, incendi), e forti alluvioni e piogge intense dall’altro (che possono generare ed esacerbare i rischi geo-idrologici). In generale, gli impatti del cambiamento climatico cui già stiamo assistendo amplificano il rischio per la sicurezza alimentare, la salute, l’approvvigionamento idrico e quindi per le nostre vite… e questo dovrebbe bastare per attivarsi immediatamente e senza apatie.

Le straordinarie storie di resilienza dei giovani angeli volontari che sfidano l’acqua alta di Venezia: il reportage di TPI dalla città lagunare

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