Invece di invertire la rotta stiamo imparando a non morire di clima
La popolazione mondiale cresce, gli eventi meteo estremi sono sempre più comuni ma le vittime della crisi climatica diminuiscono. Così, anziché cercare una soluzione, l’umanità convive con gli effetti del riscaldamento globale
L’isola Shahpori, all’estremo Sud del Bangladesh, è una delle aree più colpite dal ciclone Mocha che a metà maggio si è abbattuto sui Paesi del Golfo del Bengala: una tempesta tropicale che ha investito anche il Myanmar causando distruzione e lasciando 800mila persone in emergenza. I morti, però, sono stati meno di 200. «In passato un evento simile avrebbe causato decine o addirittura centinaia di migliaia di vittime», ha affermato Petteri Taalas, segretario generale dell’Organizzazione metereologica mondiale (Wmo). «Grazie agli allarmi precoci e alla gestione dei disastri, questi tassi di mortalità catastrofici sono ora fortunatamente storia», ha aggiunto.
Negli ultimi 50 anni nel mondo si è verificato in media un disastro ambientale ogni 24 ore, portando alla morte di 115 persone e a perdite economiche per 200 milioni di euro al giorno: inondazioni, uragani, incendi e ondate di caldo torrido sono alcuni dei fenomeni riconducibili al cambiamento climatico antropico che dal 1970 ad oggi si sono ripetuti quasi 12mila volte, presentando il salatissimo conto dello scellerato sfruttamento del pianeta da parte dell’uomo. Nonostante le ingenti perdite, la notizia è però che stiamo imparando a non morire di clima.
Più che invertire la rotta sull’investimento nel fossile, più che ridurre le emissioni, più che cercare soluzioni alternative sostenibili, l’umanità ha gradualmente appreso come non soccombere di fronte ai danni che abbiamo fatto al pianeta. Secondo l’ultimo rapporto del Wmo infatti nonostante il numero di disastri sia aumentato di cinque volte in 50 anni, le morti sono diminuite di due terzi. A testimonianza del fatto che le conseguenze in termini di vite umane degli eventi estremi non derivi dal fatto che questi ultimi siano meno frequenti o gravi. Un risultato enorme, forse uno dei maggiori successi della storia moderna, frutto del lavoro costante di previsori, pianificatori, architetti, ingegneri e attivisti politici oltre che delle innovazioni tecnologiche e infrastrutturali.
Una prassi diventata necessità soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, i più colpiti dalle catastrofi climatiche nonostante siano tra quelli che partecipano di meno al declino ambientale in termini di inquinamento e di emissioni: il 90% dei 2 milioni di morti dell’ultimo mezzo secolo riguarda Sud America, Nord Africa ed Asia (esclusa la Cina). «Le comunità più vulnerabili purtroppo sopportano il peso maggiore dei rischi meteorologici, climatici e legati all’innalzamento dei mari», ha confermato Taalas. Ed è per questo motivo che le Nazioni Unite guidate da António Guterres si sono poste un obiettivo tanto ambizioso quanto ravvicinato: entro la fine del 2027, a fronte di un investimento da un miliardo e mezzo di dollari, ogni singola persona sulla Terra dovrà essere tutelata da sistemi di allerta preventiva.
Al momento siamo ancora molto lontani da questo traguardo, perché appena la metà degli Stati li ha adottati. Percentuali che diventano ancora più basse nei piccoli Paesi insulari in via di sviluppo come Haiti, Barbados, Samoa, Tonga o Comore, oppure nelle economie meno sviluppate del continente africano. Cioè proprio dove ce ne sarebbe più bisogno. Le maggiori perdite economiche si sono verificate nei Paesi sviluppati, con gli Stati Uniti in testa. Ma quelli meno ricchi hanno subito costi molto più elevati in relazione alle dimensioni delle loro economie: nel 20% dei casi superano il 5% del pil del Paese colpito, nei casi più gravi si arriva al 100%. Vale a dire l’equivalente dell’intero sistema di beni e servizi andato totalmente perso in pochi istanti: bruciato, portato via dall’acqua, o evaporato.
Contenere i danni
L’Asia ha rappresentato il 47% di tutti i decessi segnalati in tutto il mondo – quasi un milione – con i cicloni tropicali come causa principale. Il Bangladesh ha avuto il bilancio delle vittime più alto nel continente dal 1970 con 520.758 morti in 281 calamità. In Europa, 166.492 persone sono state uccise in 1.784 disastri, pari all’8% dei decessi segnalati in tutto il mondo. Secondo il Wmo gli eventi catastrofici che hanno portato alle maggiori perdite umane negli ultimi 50 anni sono stati siccità (650.000 morti), tempeste (577.232 morti), inondazioni (58.700 morti) e temperature estreme (55.736 morti).
Ciononostante la tendenza al ribasso delle morti per disastri naturali è un dato impossibile da non notare. All’inizio del ventesimo secolo i decessi annuali per disastri superavano il milione, negli anni ’70 le vittime sono scese a circa 100mila all’anno e – nell’attuale decennio – si sono dimezzate ulteriormente. Ci sono stati alcuni anni in controtendenza nel secolo scorso, coincisi con alcuni disastri particolarmente gravi, ma l’andamento generale regge.
Due fattori principali hanno permesso di salvare vite anche di fronte a eventi sempre più disastrosi che coincidevano, è bene ricordarlo, con l’aumento generale della popolazione sulla Terra: previsioni più accurate e una maggiore capacità di far fronte a tempeste, inondazioni, incendi e ondate di calore quando queste si verificavano. Miglioramenti importanti nella previsione dei disastri sono arrivati soprattutto grazie ai satelliti meteorologici: il National Hurricane Center degli Stati Uniti ad esempio ora può proiettare il percorso di un uragano con 72 ore di anticipo, mentre 30 anni fa una previsione del genere era possibile soltanto per 24 ore, un tempo comunque sufficiente – secondo le stime del Wmo – a ridurre i danni del 30%.
I meteorologi hanno anche esteso la durata delle emergenze per condizioni meteorologiche estreme come ondate di caldo e forti piogge, o per fenomeni a lungo termine come le precipitazioni stagionali, consentendo ai funzionari di emettere avvisi alla popolazione più precisi. Ma resta ancora molto da fare. Solo la metà dei 193 membri del Wmo dispone di sistemi di allerta precoce multi-rischio e vi sono gravi lacune nelle reti di osservazione meteorologica e idrologica in Africa, in alcune parti dell’America Latina e negli stati insulari del Pacifico e dei Caraibi. Luoghi in cui molti disastri naturali hanno aumentato la loro portata distruttiva perché gli insediamenti umani si sono espansi nelle pianure alluvionali, nelle zone a rischio incendio e in quelle più esposte a climi caldi. «Si salvano più vite grazie ai sistemi di allerta precoce, ma è anche vero che il numero di persone esposte al rischio di disastri sta aumentando a causa della crescita della popolazione nelle aree in pericolo e della crescente intensità e frequenza degli eventi meteorologici», osserva Mami Mizutori, Rappresentante Speciale del Segretario Generale per la Riduzione del Rischio di Disastri presso l’Ufficio delle Nazioni Unite.
Gli avvisi tempestivi di calamità non eliminano gli eventi di per sé, e ci sono grandi disparità tra chi è attrezzato per evacuare prima di un disastro e chi non ha le risorse per mettersi in salvo velocemente. Proteggere più vite richiede quindi una valutazione più completa delle minacce che ci attendono e delle tattiche per affrontarle. Alcune pratiche, come codici di costruzione più severi per scongiurare crolli durante i terremoti, edilizia ottimizzata contro il fuoco per le abitazioni nelle zone a rischio incendio e dighe più resistente nelle zone costiere, vengono già attuate. In alcune aree, invece, potrebbe essere necessario il ricollocamento di interi insediamenti.
In fuga
Il clima sta infatti già riscrivendo la mappa degli insediamenti urbani all’interno dei Paesi più esposti alla crisi: nel 2022 il numero degli sfollati interni – le persone costrette a lasciare la propria casa che hanno trovato rifugio all’interno del loro Stato, senza migrare all’estero – ha raggiunto la cifra record di 71,1 milioni in tutto il mondo, superando del 20% il dato dell’anno precedente. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idcm), il centro di ricerca di Ginevra considerato la fonte più autorevole sul tema degli sfollati interni, la maggior parte degli spostamenti è stata causata dagli effetti del clima e dei disastri naturali.
Nonostante lo scorso anno abbia visto il ritorno della guerra in Europa e la sostanziale smobilitazione di un Paese, l’Ucraina, dall’Est geograficamente vicino all’invasione russa verso l’Ovest al confine con gli alleati europei. Meno della metà di chi è partito da gennaio a dicembre dello scorso anno ha dichiarato di scappare da guerre scoppiate in un particolare punto del proprio Paese. Di questi, il conflitto in Ucraina ha messo in fuga circa 17 milioni di persone, la cifra più alta mai registrata per qualsiasi guerra nel mondo. Gli altri si sono spostati per mettersi al riparo da disastri naturali, spesso innescati o aggravati dalla crisi climatica.
«Il fenomeno meteorologico La Niña si è protratto per il terzo anno consecutivo, provocando livelli record di sfollamento per inondazioni in paesi come Pakistan, Nigeria e Brasile. Ha inoltre alimentato la peggiore siccità mai registrata in Somalia, Etiopia e Kenya, provocando 2,1 milioni di spostamenti», scrive l’Idcm.
Altri esempi tangibili comprendono l’alluvione in Pakistan che ha lasciato sott’acqua un terzo del Paese. Oppure il periodo di estrema siccità nell’Africa orientale che ha causato 40mila morti lo scorso anno. La prima è stata resa il 50-75% più intensa dal cambiamento climatico antropico, mentre nel secondo caso la crisi climatica ha reso un evento siccitoso di quella portata 100 volte più probabile. Secondo studi contenuti nel supplemento annuale al Bollettino dell’American Meteorological Society, nel periodo dal 2015 al 2017, 62 dei 77 eventi segnalati mostrano una significativa influenza umana.
Quasi tutte le indagini sulle ondate di calore significative dal 2015 hanno rilevato che la probabilità di eventi catastrofici è aumentata a causa dell’uomo. La siccità dell’Africa orientale del 2016, ad esempio, è stata fortemente influenzata dalle temperature calde della superficie del mare nell’Oceano Indiano occidentale alla quale ha contribuito l’influenza umana.
Ai ripari
In Africa, Asia e nel Pacifico opera il Signature Program del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) denominato “Rafforzamento delle informazioni sul clima e dei sistemi di allerta precoce per lo sviluppo resiliente al clima e l’adattamento ai cambiamenti climatici”: si tratta di sistemi attuati a livello regionale che assicurano la preparazione e la risposta rapida ai disastri naturali, basati su modelli che integrano conoscenza del rischio, monitoraggio, previsione, diffusione delle informazioni e risposta agli allarmi.
In Uganda, dove il 64% della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza, la maggior parte delle stazioni meteorologiche è caduta in rovina a seguito della guerra civile. Lì il progetto ha sostituito le stazioni meteorologiche obsolete e inadeguate con sistemi aggiornati, riducendo i rischi attraverso mezzi più efficaci per generare e diffondere informazioni. In Cambogia più di 1,7 milioni di persone nel 2013 sono state colpite da inondazioni che hanno causato danni economici per 365 milioni di dollari: tre anni dopo il numero di persone coinvolte in inondazioni era salito a più di 2,5 milioni, indice di un aumento del fenomeno legato al clima.
Un programma quadriennale attuato dall’Undp con il governo e altri partner ha permesso l’installazione e la riattivazione delle stazioni meteorologiche e agrometeorologiche automatiche e delle stazioni idrologiche automatiche esistenti in tutto il Paese. Gli agricoltori ora possono accedere ai bollettini sul clima per pianificare al meglio ad esempio il loro lavoro e non trovarsi in situazioni di pericolo non previste. Il progetto Climwarn dell’Unep in Burkina Faso, Ghana e Kenya ha sostituito i metodi meteorologici rudimentali con un sistema più sofisticato che utilizza la tecnologia moderna per avvisare le comunità di potenziali inondazioni e altri rischi.
L’allarme viene poi comunicato alle regioni rurali tramite SMS ed e-mail, aiutandole a mettersi al riparo in tempo. Tecnologia e cooperazione internazionale al servizio delle terre svantaggiate, gli stessi fattori che – se incanalati verso le cause e non gli effetti del problema – permetterebbero al mondo di smetterla di rincorrere di volta in volta i disastri naturali ma di ridurne il numero e la portata.