Il mondo in cerchio per il Clima e l’Italia che non conta niente
L’accordo siglato negli Emirati Arabi non è il migliore possibile. Ma pone basi solide per l’abbandono dei fossili già entro il 2030. Il modello multilaterale è l’unica via contro la crisi ambientale. Peccato che il nostro governo brilli per incompetenza
Sapevamo che questa Cop si sarebbe trascinata avanti a lungo, d’altronde come poteva essere altrimenti per una Conferenza sul Clima negli Emirati Arabi Uniti. C’è chi diceva che sarebbe andata avanti fino a Natale. Ma non era verosimile, e non tanto perché uno stallo a oltranza non fosse plausibile, piuttosto perché da tempo era previsto che il 15 dicembre a Expo City, l’area di Cop28, iniziassero i mercatini di Natale che il capitalismo fossile ha portato fin qui. Il presidente Al Jaber, quindi, non doveva solo guidare la salvezza della civiltà umana, ma salvare anche il Natale.
La mossa dell’Opec
Venerdì scorso ci eravamo lasciati con la rivelazione delle sue dichiarazioni antiscientifiche e la relativa indignazione dell’opinione pubblica. Ripartiamo da lì, per raccontare cos’è successo nell’ultima settimana di Cop, dove ogni ora cambia qualcosa e ogni giorno sembra una settimana.
Sabato 9 è stato innanzitutto il 75esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e trascorrerlo a Dubai, dove qualsiasi forma di aggregazione è scoraggiata e di attivismo è criminalizzata, è stato piuttosto impressionante. L’ultimo rapporto di Amnesty International sui diritti umani nel mondo segnala situazioni preoccupanti relative alla repressione della libertà di espressione e associazione.
Visto lo spazio che la richiesta per il cessate il fuoco a Gaza stava assumendo all’interno della Cop, la kefiah e le bandiere palestinesi sono state definitivamente vietate. Mentre a Pechino si chiudeva il 24esimo vertice Ue-Cina e a Dubai il negoziato entrava nella sua fase più calda, il segretario generale delle Nazioni Unite Antionio Guterres, che è una guida preziosa in un contesto internazionale critico, per la prima volta ha deciso di invocare l’articolo 99 della Carta delle Nazioni Unite, chiedendo l’aiuto del Consiglio di Sicurezza per fermare la catastrofe umanitaria a Gaza.
La risoluzione proposta proprio dagli Emirati Arabi Uniti per un “cessate il fuoco umanitario”, come forse ormai sapete, non è passata nonostante 13 voti favorevoli su 15 (il Regno Unito si è astenuto) perché l’unico voto contrario è arrivato dagli Stati Uniti, che hanno il diritto di veto e che tramite il proprio delegato Robert Wood hanno dichiarato che il cessate il fuoco «getterebbe i semi per un prossimo conflitto».
Nello stesso giorno, il presidente dell’Opec ha inviato una lettera, svelata da Reuters, ai tredici Paesi membri dell’organizzazione di produttori ed esportatori di petrolio chiedendo alle loro delegazioni di opporsi a qualsiasi formulazione del testo sul phase-out (fuoriuscita) dal fossile.
È una notizia che è subito divampata nelle stanze della Cop, ma che non ha sorpreso nessuno. Anzi, ha fatto pensare a una cosa: che l’Opec avesse paura, che per quanto fosse incerto vedere il phase-out scritto nero su bianco nel testo dell’accordo finale, quello che è certo è che non si era mai parlato così tanto di fine del petrolio e del gas come in questa Cop28, benché ospitata da un petrostato.
John Silk, il capodelegazione delle Isole Marshall, rispetto alla lettera dell’Opec ha avvisato: «Guardate che noi non ce ne andremo nelle nostre tombe d’acqua in silenzio». La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha detto: «Il phase-out dai combustibili fossili è l’unico modo per salvare il genere umano». Quella francese dell’Ambiente, Amélie de Montchalin: «È sconvolgente, siamo molto arrabbiati». E la sua omologa spagnola, Teresa Ribera: «È disgustoso».
Che cos’ha detto il ministro della Sicurezza energetica italiano Gilberto Pichetto Fratin? Ha detto solo che «sarebbero stupidi se non facessero i loro interessi». Dipende gli interessi di chi si guarda: secondo lo studio della Ong Lingo, le emissioni dei progetti di estrazione di petrolio e gas nei Paesi membri Opec del Golfo causeranno più di 43 milioni di morti premature nella regione entro fine secolo, nonché il collasso del Pil.
Senza posizione
Si sa che l’Italia, almeno a livello istituzionale, ha una lunga tradizione di dichiarazioni scomposte e riprese dai media, ma non ha mai avuto un ruolo di primo piano agli ultimi negoziati sul clima. Nonostante fosse co-organizzatrice di Cop26, contrariamente a quasi tutti gli altri Paesi, il nostro a Glasgow non aveva un suo padiglione. Alla Cop27 di Sharm el-Sheikh invece lo aveva, ma riportava una dicitura sbagliata del Ministero dell’Ambiente.
Il suo più alto rappresentante, Pichetto Fratin appunto, l’anno scorso non era venuto per le discussioni decisive, ma a SkyTg24 aveva detto: «Rispetto alle impostazioni in questo momento si stanno confrontando le due impostazioni. Noi non abbiamo una posizioni a priori». Cioè non avevamo proprio alcuna posizione, lettura, dossier. E lo stesso vale per Cop28.
Pichetto Fratin e Francesco Corvaro, inviato speciale italiano per il Clima, sembravano girare per il summit piuttosto spaesati e incuriositi da quello che li circondava. Entrambi non si erano mai occupati di negoziati sul clima, ma nemmeno di clima.
Il primo fa il commercialista, ha scoperto sui social il suo incarico nella formulazione del governo, non parla alcuna lingua al di fuori dell’italiano. Il secondo è professore di Fisica tecnica industriale all’Università delle Marche, su YouTube aveva una pagina seguita di consigli su griglie e barbecue.
Una buona frase che riassume molto delle Cop è arrivata invece dalla Norvegia: «Tutti i buoni accordi vengono fatti nelle ore finali e nessun buon accordo si fa di giorno. Dobbiamo trovare un compromesso, ma non si può trovare un compromesso sulla scienza».
Domenica, per distendere gli animi e sbloccare la situazione verso un compromesso, Sultan Al Jaber ha convocato un majlis, un antico strumento di governo tribale che prevede che si discuta in cerchio. L’immagine rotonda dei rappresentanti delle 198 delegazioni è stata piuttosto impressionante ed esplicativa sulla difficoltà di metterle tutte d’accordo. Peccato che il nostro ministro sia arrivato in grande ritardo, perché impegnato in un incontro bilaterale col suo omologo dell’Arabia Saudita. Il che la dice lunga.
Se da una parte il suo atteggiamento è frutto della poca conoscenza del sistema Cop e dei suoi dossier cruciali, dall’altra è la cartina tornasole dei legami che il nostro Paese ha con gli Stati che più si oppongono all’abbandono delle fonti fossili.
La delegazione italiana è quella più lontana dal mandato del Consiglio europeo e quella più vicina alla retorica degli Emirati Arabi. Adnoc, la compagnia petrolifera presieduta da Al Jaber, ha infatti come primo partner internazionale proprio Eni, che negli Emirati ha riserve di quasi 2 miliardi di barili di idrocarburi. Eni possiede il 25% del giacimento Ghasha, che si trova in parte in una riserva della biosfera Unesco, al largo di Abu Dhabi.
Non si tratta di sicurezza energetica. L’Italia importa gas dal Qatar, ma non dagli Emirati, dove Eni estrae per interessi economici idrocarburi che vende in Africa, in Asia meridionale e in Estremo Oriente. La recente stretta di mano tra Giorgia Meloni e Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan, presidente emiratino, ha suggellato i rapporti tra Eni e Adnoc, che tramite un protocollo di intesa si sono intensificati proprio in vista di Cop28.
Bozza antiscientifica
Lunedì 11 dicembre è arrivata la seconda (prima vera) bozza, senza alcun riferimento al phase-out. E ha rischiato di far venire giù tutto. In fondo, la riuscita di questo evento da milioni di euro, 97.000 partecipanti, 198 delegazioni, ruota tutta attorno a un articolo (che nella prima bozza era il 36esimo, nella seconda il 39esimo e nell’ultima il 28esimo) e a due espressioni: phase-down (riduzione) o phase-out (uscita). Ci sono solo tre lettere di differenza, ma è tutta la differenza del mondo.
Quella bozza era contraria alla scienza, pericolosa, irricevibile, «deludente» secondo il commissario europeo sul Clima Wopke Hoekstra e «inaccettabile» per la ministra spagnola Teresa Ribera, che avendo la presidenza di turno al Consiglio Europeo ha guidato con forza le posizioni comunitarie.
«Questo testo sarebbe il nostro certificato di morte», ha detto il samoano Teolesulusulu Cedric Schuster, portavoce di 39 Stati insulari che rischiano di perdere tutto.
Martedì 12 è stato un giorno di attesa, in cui però si è allargato il fronte degli Stati favorevoli a mettere fine ai combustibili fossili. Tra questi c’erano anche gli Stati Uniti, che però ogni anno sembrano avere presa su un numero sempre minore di Paesi, come dimostra la partita in disparte giocata dal loro inviato per clima John Kerry e dai 153 voti favorevoli dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che nella giornata di martedì ha approvato la risoluzione per il cessate il fuoco umanitario a Gaza. Nel mentre a Dubai i negoziati proseguivano e a Doha si riunivano i ministri dell’Energia dei Paesi arabi.
Particolarmente notevole è stata la dichiarazione del ministro del Petrolio del Kuwait, Saad Al Barrak, che si è detto «sorpreso dalla ferocia dell’attacco sul cosiddetto phase-out del petrolio, una ferocia che è pareggiata solo dall’avidità dell’Occidente nel tenere il controllo dell’economia».
È la forza di quest’alleanza, guidata da Unione Europea, Stati insulari e composta da circa 120 nazioni, che è riuscita ad alzare l’asticella e a negoziare nella lunga notte tra martedì e mercoledì il testo che è stato approvato in plenaria e che, nella mattinata del 13 dicembre, con un giorno di ritardo, ha chiuso Cop28.
Intesa
Il testo finale non cita esplicitamente il phase-out dai combustibili fossili (usa la formula «transition away») ma pone basi solide per il loro abbandono già alla fine di questa decade e stima in 215-387 miliardi all’anno i fondi per l’adattamento, però è debole e poco chiaro su chi finanzierà entrambi.
Il nucleare entra per la prima volta nel testo, così come le tecnologia di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio, ma in modo marginale. Tutti i Paesi sono chiamati a contribuire, su fasce temporali diverse determinate dalla circostanze storiche di ciascuno, per triplicare la capacità di rinnovabili e duplicare gli sforzi per l’efficienza.
«Siamo venuti qui per costruire insieme una canoa per il nostro Paese. Ora ce l’abbiamo, ha uno scafo debole e permeabile, ed è piena di buchi, ma dobbiamo comunque metterla in acqua», sono le parole del capodelegazione delle Isole Marshall per descrivere l’accordo: non esattamente il risultato che si potesse sperare, un risultato sicuramente reale, a suo modo storico, che avrà bisogno di tanta politica per essere messo in pratica.
Le Nazioni Unite e le Cop non sono nella posizione degli arbitri del tennis, anche se spesso vengono raccontate come tali. Non sono super partes o indipendenti, non impongono: sono semplicemente la somma degli Stati che ne fanno parte, che si autoimpongono e impegnano reciprocamente. Provare a coordinare le necessità di 198 Paesi è uno sforzo enorme, cognitivamente sfiancante e contenutisticamente dissanguante. Ma il paradigma multilaterale è l’unico per provare a risolvere una crisi che non conosce muri e confini.
A chi contesta le Cop diciamo che ha tutte le ragioni per farlo, ma che deve venire a farlo dove si svolgono. Che se la tripletta Egitto-Emirati Arabi-Azerbaijan (dove si terrà Cop29) riesce e cancellare l’idea di Conferenze sul Clima partecipate dalla società civile, allora avranno davvero vinto i petrostati e gli avversari del cambiamento. A Dubai ci contavamo sulle dita di poche mani.
A Baku dovremo essere dieci volte tanti/e perché senza il pilastro dell’attivismo, e naturalmente anche della partecipazione degli osservatori e della stampa indipendente, crolla l’intero architrave su cui si reggono. E se crollano le Cop affonda la canoa, implode quel sistema che vede il mondo seduto in cerchio come in nessun altro contesto, su nessun altro tema. Costruire una transizione giusta significa costruire un’alternativa, costruire la pace.