Cambiamento climatico, le estati 2013, 2023 e 2033 a confronto
Dieci anni fa si registrò solo qualche incendio in Sardegna. Oggi l’Italia è in ginocchio da Nord a Sud fra roghi, tornado, alluvioni. La crisi si sta facendo sempre più forte. E se non invertiamo drasticamente la rotta in futuro si aggraverà ulteriormente
Il luglio del 2023 è stato il mese più caldo di sempre. Ha fatto talmente tanto caldo che non si è nemmeno dovuto attendere che il mese finisse, per stabilire il primato: gli scienziati dell’Organizzazione meteorologica mondiale non avevano mai registrato valori simili, e così già il 27 luglio hanno deciso di dare l’annuncio del record mensile, assumendosi il rischio di essere smentiti in caso di un’ondata di freddo nei giorni seguenti. Ma l’ondata gelida, ovviamente, non è arrivata.
Nei primi ventitré giorni di luglio la temperatura media sulla Terra è stata di 16,95 gradi centigradi, frantumando il precedente picco storico di 16,6 gradi del luglio 2019. Non solo: il mese scorso la temperatura mondiale ha anche temporaneamente superato la soglia di +1,5 gradi oltre il livello pre-industriale, considerata dagli Accordi di Parigi il punto critico oltre il quale bisognerebbe non spingersi per contenere gli effetti del cambiamento climatico: un dato particolarmente allarmante.
«L’era del riscaldamento globale è finita: è arrivata l’era dell’ebollizione globale», ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.
Bel Paese
In Italia lo scorso luglio è stato il mese del fiume di ghiaccio a Seregno, del tornado notturno che in pochi minuti ha scoperchiato mezza Milano, dei chicchi di grandine grandi più di palline da tennis abbattutisi sulla Romagna e le Marche, degli incendi divampati in Sicilia, Sardegna, Salento.
Si tratta di fenomeni non nuovi, ma diventati sempre più frequenti sulla nostra penisola. Basti pensare che solo nei primi cinque mesi del 2023 – secondo uno studio effettuato da Legambiente – il territorio italiano è stato vittima di ben 122 eventi climatici estremi, il 135% in più rispetto allo stesso periodo del 2022, anno che a sua volta si è chiuso con un incremento del 55% rispetto al 2021.
Andando indietro di un decennio, nell’estate del 2013 gli eventi climatici estremi registrati in Italia furono tutto sommato pochi e di minore intensità rispetto a quelli più recenti. L’unico episodio rilevante – rileggendo le cronache di quei mesi – si ebbe con i roghi che all’inizio di agosto carbonizzarono interi ettari di vegetazione nel centro-sud della Sardegna, mentre verso la fine della primavera, a maggio, c’erano state un paio di trombe d’aria fra Emilia e Brianza.
Devastante fu invece, a novembre, l’arrivo del ciclone Cleopatra, che sempre in Sardegna provocò l’esondazione di diversi fiumi e la morte di diciotto persone: scene che nell’ultimo anno abbiamo rivisto nelle Marche (settembre 2022), sull’isola di Ischia (novembre 2022), in Calabria (dicembre 2022) e in Romagna (maggio 2023).
Negli ultimi anni, insomma, la frequenza dei disastri è andata aumentando. «Un evento che prima accadeva ogni dieci anni adesso lo raccontiamo ogni anno», conferma a TPI Paola Mercogliano, docente di Meteorologia avanzata all’Università Parthenope di Napoli. «Semplificando, possiamo dire che nell’estate del 2013 è accaduto “in piccolo” quello che stiamo vedendo oggi. Le dinamiche sono le stesse: in estate l’aria è calda e, quando incontra aria più fredda proveniente ad esempio dal Nord, si verificano fenomeni come grandinate, trombe d’aria, venti forti. Solitamente ciò accadeva verso fine agosto, ma non si trattava di fenomeni molto violenti. Cosa è cambiato? Che negli ultimi dieci-vent’anni la temperatura del Mediterraneo e dei Paesi che si affacciano su questo mare sono più alte».
A Roma la temperatura media nel luglio 2013 fu di 25,3 gradi con un picco massimo di 36 e un minimo di 15 (fonte: Ilmeteo.it). Quest’anno la media è stata di 28 gradi: non si è mai scesi sotto i 19 e si è toccata quota 40. A Milano dieci anni fa la media fu di 25,6 con la minima più bassa a 15 e la massima più alta a 35. Nel luglio 2023 il valore medio è stato quasi uguale: 25,8. Ma il picco minimo è salito a 16 e il massimo a 36. Clamoroso il dato di Palermo: nel luglio 2013 la temperatura media fu di 25,4 gradi, con picchi compresi fra 18 e i 35; quest’anno si è saliti a una media di 28,2 gradi, con punte fra i 21 e i 44.
Oggi «avviene esattamente quello che accadeva anche prima – prosegue la professoressa Mercogliano –, solo che avviene in un contesto molto più caldo. E quindi, quando arriva l’aria fredda, si sprigionano fenomeni che sono molto più violenti. Prendiamo ad esempio le grandinate: le grandinate accadono quando l’atmosfera, di fronte a masse d’aria così contrastanti fra loro, tenta di riportarsi in equilibrio; l’umidità, che sta in atmosfera sotto forma di goccioline, viene spinta verso l’alto dall’aria fredda e si solidifica trasformandosi appunto in grandine. Man mano che le temperature si alzano, questi fenomeni diventano più violenti».
E il discorso vale anche per gli incendi: «Al netto del fatto che la maggior parte dei roghi pare sia di origine dolosa – spiega l’esperta – questo contesto di temperature elevate, associato al ridotto contenuto di acqua nel suolo, acuisce il disseccamento della vegetazione e di conseguenza favorisce la propagazione degli incendi. Quindi, con il cambiamento climatico, un rogo che prima sarebbe stato contenuto può diventare molto più esteso e si propaga più velocemente».
Il domani è nero
Se il trend è di una costante intensificazione di questi fenomeni, allora cosa dobbiamo aspettarci, fra un altro decennio, per l’estate del 2033? «Dipende dalle politiche di mitigazione a livello globale», risponde Mercogliano. «Quello che possiamo dire è che, se continueremo a immettere gas serra in atmosfera a questo ritmo, nel 2033 vedremo in media fenomeni ancora più violenti; quelli a cui assistiamo oggi saranno la versione “in piccolo” di quelli futuri».
Nel 2022 la docente ha pubblicato insieme ad altri colleghi uno studio intitolato “Analisi del rischio: i cambiamenti climatici in Italia”. L’indagine evidenzia che i settori economici che subiranno le maggiori perdite per il cambiamento climatico saranno il turismo, le infrastrutture e l’agricoltura (e attenzione: il riferimento non è solo al turismo estivo ma anche a quello invernale, sempre più in difficoltà per la scarsità di neve e lo scioglimento dei ghiacciai).
«Mi faccia dire che non accetto questa passività sul tema da parte dei politici europei», attacca Mercogliano. «Il messaggio non può essere “Cittadini, questo sta accadendo e questo accadrà”, quasi dovessimo prepararci passivamente all’Armageddon. Bisogna lavorare sull’adattamento e sulla mitigazione del cambiamento climatico. La soluzione non può essere far arrivare i turisti a maggio anziché a luglio… Dal cambiamento climatico si deve tornare indietro. Le conferenze sul Clima dell’Onu servono proprio a elaborare e attuare politiche che possano fermare il cambiamento climatico. Le nostre società non possono permettersi questo clima: è troppo pesante, soprattutto per le fasce più vulnerabili della popolazione, come anziani e bambini. Ci stiamo perdendo troppo, non solo a livello ambientale ma anche sul piano economico».
Problema culturale
C’è poi un altro punto, spesso sottaciuto, che va considerato: l’impatto distruttivo sull’Italia dei recenti eventi climatici estremi è stato aggravato anche dal fatto che nel nostro Paese non ci prendiamo abbastanza cura del nostro territorio.
«Non abbiamo mai avuto la consapevolezza di una corretta gestione del territorio: abbiamo costruito sugli argini dei fiumi, abbiamo irregimentato i corsi dei fiumi, e così via», sottolinea a TPI Grazia Pagnotta, professoressa di Storia dell’ambiente all’Università Roma Tre e autrice del libro “Prometeo a Fukushima” (Einaudi).
L’accademica invita a volgere lo sguardo indietro nel tempo: «Il nostro Paese – dice – paga una cattiva gestione del territorio almeno a partire dagli anni Cinquanta. Il miracolo economico italiano si basò su due industrie: quella automobilistica e quella dell’edilizia. Oltre mezzo secolo dopo, abbiamo tutt’ora un sistema infrastrutturale basato sul trasporto privato, con centri urbani sovraffollati di automobili. E abbiamo città come Roma e Napoli che hanno avuto un’espansione fuori da qualsiasi regola urbanistica».
Di questo passo, continua Pagnotta, nel 2033 «rischiamo di ritrovarci con seri problemi strutturali: dalla mancanza d’acqua a fenomeni estremi sempre più frequenti. E avremo sicuramente più ondate migratorie, meno ghiacciai e meno biodiversità».
Trovare un addetto ai lavori che sia ottimista rispetto al futuro che ci attende sul pianeta Terra è pressoché impossibile. «Se continuiamo a cementificare, a non investire nella manutenzione della rete idrica, a strizzare l’occhiolino alle peggiori agricolture intensive, a immaginare un sistema di logistica e trasporti folle, se continuiamo così è chiaro che stiamo apparecchiando il territorio per un peggioramento ulteriore della situazione», osserva, parlando con il nostro giornale, Paolo Pileri, professore ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano.
Secondo Pileri, la questione è prima di tutto culturale: «In Italia – riflette – soffriamo di un’enorme ignoranza ecologica: questo è un grandissimo problema che dovremmo avere il coraggio di esaminare, perché per far fronte a disastri come quelli a cui stiamo assistendo non servono solo le tecnologie per ma anche la conoscenza. Non abbiamo una cultura ecologica che ci fa drizzare i capelli davanti alle cose che stanno accadendo sotto i nostri occhi: c’è proprio un problema di non comprensione».
«Questo – prosegue il professore del Politecnico – fa sì che taluni, che tendono a voler replicare nel futuro le comodità di cui hanno sempre goduto, non ne vogliono sapere di cambiare modello: ha presente quando si sente dire “In fondo d’estate ha sempre fatto caldo, al limite compratevi il condizionatore”? È una visione antropocentrica: “Se fa caldo, che problema c’è? Noi siamo i sapiens, possiamo comprarci qualsiasi cosa, continuando a immettere nell’atmosfera anidride carbonica”. Ma la questione ambientale va presa di petto».
E allora ecco una proposta che ha il sapore della provocazione, ma solo fino a un certo punto: «Abbiamo sindaci e governatori che non sanno distinguere un platano da un abete: dovremmo obbligarli a studiare ecologia», sostiene Pileri. «Solo se le istituzioni avessero il buon senso di rivolgersi ai cittadini dicendo “Bisogna cambiare passo, le priorità sono cambiate”, allora ci potrebbe essere qualche speranza per una maggiore consapevolezza collettiva. E invece, guardi alla comunicazione dei politici dopo i disastri delle ultime settimane: hanno parlato solo della conta economica dei danni, non delle cause scatenanti di questi fenomeni. Così, alla fine, i cittadini continueranno a pensare che si tratti di eventi eccezionali e imprevedibili. Ma non lo sono».