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Home » Ambiente

Insetti, alghe, carne artificiale: cambiare dieta può salvare l’ambiente

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Credit: AP Foto

Biogas. Imballaggi. Trasporti. La filiera alimentare è sempre meno sostenibile. Complici la crescita demografica e la crisi climatica. Ma la ricerca promette soluzioni alternative. Come le alghe e la carne artificiale

A metà novembre dello scorso anno la popolazione mondiale ha toccato quota 8 miliardi, e le stime suggeriscono che un altro miliardo di persone si aggiungerà al totale entro il 2050. Volendo mantenere lo stesso regime alimentare sul quale il pianeta si fonda attualmente, da qui a 25 anni la produzione globale di carne dovrà raddoppiare per nutrire la popolazione in crescita, e – secondo quanto osserva l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) – anche la produzione di mangimi e le colture dovranno aumentare per sostenere il bestiame e soddisfare i nostri appetiti, occupando inevitabilmente più spazio terrestre e utilizzando più acqua, due beni preziosi e in costante diminuzione.

Rendere disponibile maggiori quantità di cibo, che soprattutto nei Paesi maggiormente sviluppati subisce diversi processi di elaborazione prima di arrivare al supermercato e poi sulla tavola di noi consumatori, è un processo non più sostenibile a questi ritmi, perché erode rapidamente le risorse naturali e offre un enorme contributo negativo al cambiamento climatico. Impatto che il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) stima al 26 per cento per quanto riguarda le emissioni globali, percentuale che sale al 33 per cento se si tiene conto degli sprechi alimentari. Questo dato include anche le fasi di stoccaggio, impacchettamento, consegna e ritiro dei risultati della lavorazione del cibo.

La fetta restante viene dall’utilizzo di combustibili fossili a supporto delle attività umane come trasporti, produzione di energia elettrica, riscaldamento, processi industriali: se per questi fattori esistono piani di investimento e riconversione con l’intento di ridurne l’impatto ambientale, sotto la stessa lente critica andrebbe posta l’intera filiera alimentare. Il solo settore coinvolto nella produzione di proteine ​​animali è responsabile della metà delle emissioni legate al cibo, principalmente a causa del metano prodotto dal bestiame e dall’acquacoltura. Per non parlare dei grandi spazi richiesti dagli allevamenti, creati in alcuni casi attraverso massicci disboscamenti (gli esempi più gravi in Amazzonia), che eliminano vaste aree verdi capaci di assorbire la CO2.

Emissioni in cucina
Allevare bovini richiede anche grandi quantità di piante foraggere e – quindi – l’utilizzo di fertilizzanti azotati per accelerarne la crescita e tenere viva la “catena di montaggio” alimentare. L’anidride carbonica e il protossido di azoto rilasciati nell’atmosfera durante la produzione di questi fertilizzanti contribuiscono all’inquinamento imputabile al bestiame, con ogni capo capace di generare circa 500 litri al giorno di metano dalla fermentazione di prodotti carboniosi all’interno dell’apparato digerente. A livello globale, si stima che gli animali da allevamento emettano in metano l’equivalente di circa 3,1 miliardi di tonnellate di CO2, dato che rappresenta quasi la metà di tutte le emissioni di metano antropogenico. E non da meno è l’impatto ambientale necessario per portare in tavola pesce e frutti di mare.

L’acquacoltura, forma di allevamento sempre più in espansione, rappresenta al momento oltre il 60 per cento della fornitura globale di prodotti marini destinati al consumo umano. Sebbene le emissioni di gas serra di questo settore siano ancora molto inferiori a quelle associate al bestiame (uno studio su Nature mostra come la pratica abbia rappresentato circa lo 0,49 per cento delle emissioni di gas serra antropogeniche nel 2017), recenti misurazioni indicano comunque un forte aumento del suo impatto sul riscaldamento globale, dovuto nuovamente al metano: i sedimenti accumulano residui alimentari utilizzati per la crescita di pesci e frutti di mare, nonché gli escrementi generati da questi animali, e la trasformazione di questo materiale organico porta alla produzione del gas, poi diffuso nell’atmosfera.

A ciò si aggiunge che la maggior parte dei sistemi di acquacoltura si trova in Asia, ricavati artificialmente in regioni che un tempo erano occupate da mangrovie, in ecosistemi situati lungo le coste e i delta delle regioni tropicali. La distruzione di queste formazioni vegetali tipiche – molto spesso per consentire l’allevamento di gamberetti – è molto dannosa per l’ambiente, vista la capacità delle foreste di mangrovie di immagazzinare collettivamente circa 4 miliardi di tonnellate di CO2: la loro eliminazione ha quindi un impatto tangibile sul clima.

Spreco di plastica
Mangiare in modo sostenibile non può quindi prescindere da una profonda riflessione sul consumo di carne e pesce, tenendo conto del rapporto diretto che c’è tra la qualità di proteine degli alimenti che ingurgitiamo e quella di gas serra emessi. La produzione di 100 grammi di proteine ​​di manzo, ad esempio, genera in media 100 volte più emissioni rispetto alla stessa quantità di proteine ​​contenuta nelle noci o nei legumi. In astratto, una dieta vegetariana inquinerebbe la metà rispetto alla classica dieta mediterranea.

Dato che rimane vero anche di fronte alla principale obiezione che viene fatta dai più conservatori, ossia che le piante consumate provengono spesso dall’estero e talvolta percorrono lunghe distanze prima di arrivare in tavola: contrariamente a quanto si crede, infatti, il trasporto rappresenta solo una piccola percentuale (meno del 10 per cento) dei gas serra associati a un determinato alimento. Oltre a contribuire a un problema di medio-lungo respiro come il surriscaldamento globale, la produzione alimentare impatta anche nell’immediato sulla salute della popolazione per colpa dell’inquinamento atmosferico, considerato attualmente la settima causa di morte prematura in tutto il mondo. Inoltre, quasi tutto il cibo che acquistiamo viene confezionato. Che provenga da un negozio di alimentari o da un mercato, da un ristorante o da un fast food, è difficile trovare cibo che non sia stato impacchettato artificialmente.

I moderni imballaggi alimentari sono realizzati con una varietà di materiali sintetici e artificiali, tra cui ceramica, vetro, metallo, carta, cartone, cartone, cera, legno e – soprattutto –  plastica. Secondo l’EPA (Environmental Protection Agency) degli Stati Uniti, gli alimenti e i loro materiali da imballaggio costituiscono quasi la metà di tutti i rifiuti solidi urbani.

Possibili alternative
Pensare di decarbonizzare e rendere “green” l’intera filiera del cibo è impossibile: d’altro canto, però, bisogna prendere atto dell’enorme potenziale generato dalla riduzione del consumo di prodotti derivati ​​dai ruminanti, come carne bovina e latticini, in termini di risultati tangibili e immediati. È tempo che i sistemi agricoli e quelli legati all’allevamento seguano percorsi alternativi, con l’aiuto di nuove tecnologie che permettano di disegnare modelli maggiormente al passo con la crescita demografica, la crisi climatica e le disparità economiche. Dalla carne artificiale coltivata in laboratorio agli insetti commestibili, passando per le alghe e una transizione più convinta verso cibi di origine vegetale a fronte di sensibili cambiamenti nella produzione alimentare, i prossimi decenni vedranno una svolta considerevole nel cibo che mettiamo nei nostri piatti.

Una rivoluzione che sta avvenendo già adesso e che riguarda il mondo intero, con buona pace di chi pensa di potervisi opporre per questioni ideologiche. Coldiretti ha diffuso un’indagine svolta dall’istituto di consulenza Ixè dalla quale emerge che la maggior parte degli italiani (il 54 per cento) si opporrebbe al consumo di insetti in tavola. Ma il solco è già tracciato, al punto che l’Unione europea ha recentemente approvato la quarta specie di insetti ritenuta “commestibile” dopo le larve gialle della farina, le locuste migratorie e i grilli: si tratta delle larve del verme della farina minore (Alphitobus diaperinus), da consumare congelate, in pasta o essiccate. E altre otto nuove soluzioni sono in lista d’attesa.

Nonostante la levata di scudi, Bruxelles vede negli insetti, e nelle proteine alternative in generale, la perfetta risposta all’aumento del costo delle proteine animali, del loro impatto ambientale, dell’insicurezza alimentare e della crescita della popolazione, con corrispondente crescente domanda tra le classi medie. Per adesso – spiega la Commissione europea – l’impatto sul mercato è trascurabile: «Spetta ai consumatori decidere se vogliono o meno mangiare insetti. Il loro uso come fonte alternativa di proteine non è nuovo e vengono mangiati regolarmente in molte parti del mondo».

Un nuovo regime alimentare
Ai 2 miliardi di persone che nel mondo praticano già l’entomofagia (ovvero il consumo di insetti, ndr) presto o tardi si aggiungeranno enormi masse che abbandoneranno le vecchie abitudini. Nel 2019 la commissione EAT-Lancet, che riunisce 37 scienziati di fama mondiale attorno al quesito: “Possiamo nutrire una popolazione futura di 10 miliardi di persone con una dieta sana entro i confini planetari?” ha proposto in un report una transizione “soft”, che passi per una fase in cui si abbraccia la dieta flexitariana, «ideale per la salute umana e per quella del pianeta», in cui gli alimenti vegetali ne costituiscono la base. Si tratta di un approccio flessibile di ispirazione vegetariana che però non esclude carne e pesce, invitando a consumarli con moderazione.

Uno schema simile a quello della dieta “climatariana” introdotta e promossa nel 2015 dal New York Times, che prevedeva inoltre la conservazione corretta degli alimenti per prolungarne al massimo la vita, il “no” allo spreco alimentare attraverso l’acquisto di piccole quantità di cibo e la preferenza verso cibi coltivati biologicamente sui quali non siano stati usati prodotti chimici. Oltre a un consumo più responsabile di alimenti familiari, potrebbe presto diventare realtà l’utilizzo diffuso delle alghe, un’altra tendenza alimentare che ha già fatto breccia nelle nostre abitudini. Qualcuno potrebbe averle già consumate nel sushi o sotto forma di spirulina, una novità popolare da qualche anno a questa parte nelle diete dei più attenti alla salute. Come gli insetti, anche le alghe causano pochi danni all’ambiente, crescono rapidamente e contengono molti nutrienti, il che le rende un candidato ideale come “alimento del futuro”.

In Canada esiste una start up chiamata “Cascadia Seaweed” che gestisce già fattorie offshore e un vivaio di sementi, e ora è focalizzata sul lancio di prodotti alimentari di consumo. Resta da superare il “limite” del gusto, spesso amaro, erbaceo o di pesce, che lo ha reso – ad oggi – un prodotto che fatica ad uscire dalla nicchia. Diverse aziende hanno intuito che presto intorno a questo settore il mercato sarà fiorente: la start up israeliana Brevel sta creando una polvere di microalghe che può essere aggiunta alle proteine ​​vegane, mentre la neozelandese NewFish sta producendo “salumi senza carne” come una simil-mortadella derivata da microalghe. Un’indagine guidata dall’Università australiana del Queensland e pubblicata sulla rivista Nature Sustainability afferma che se sostituissimo con le alghe il 10 per cento dell’alimentazione umana eviteremmo l’emissione di 2,6 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno e salveremmo dallo sfruttamento 110 milioni di ettari di terreno.

Fino a 34 specie diverse potrebbero essere coltivate a scopo commerciale, offrendo un’alternativa sostenibile all’espansione dell’agricoltura terrestre. Lo studio ha anche indicato due aree, una al largo delle coste dell’Indonesia e l’altra in Australia, larghe rispettivamente 114 e 75 milioni di ettari di oceano, che risulterebbero “più promettenti” per sviluppare l’agricoltura basata sulle alghe.

Cibi artificiali
Diversificare il cibo che mangiamo è una delle soluzioni per alleviare la fame, affrontare la perdita di biodiversità e aiutare ad adattarsi ai cambiamenti climatici. Il ricercatore dei Giardini Reali botanici di Kew (Londra), il dottor Sam Pironon, sostiene che «alcune delle soluzioni» possano essere trovate «nelle migliaia di specie di piante commestibili in tutto il mondo che vengono consumate da popolazioni diverse». Di oltre 7mila piante commestibili, infatti, solo 417 sono ampiamente coltivate e utilizzate per il cibo. Tutto il resto è un territorio inesplorato.

Molte ricerche stanno andando inoltre nella direzione della lavorazione delle carni a base vegetale. Ingredienti come proteine ​​a base di grano, olio di cocco e fecola di patate vengono impiegati nella creazione dei surrogati, diventati sempre più indistinguibili grazie a una molecola chiamata “eme”, un complesso chimico membro di una famiglia di composti chiamati “porfirine” contenente un atomo di ferro che può simulare il gusto e la consistenza della carne. Per coloro che non riescono ad accettarla perché “non è vera carne”, ci sono alternative realizzate in laboratorio che sono, in effetti, carne vera, tranne per il fatto che nessun animale è stato ucciso per produrla.

L’editorialista del Guardian, George Monbiot, ha parlato nel suo recente libro “Regenesis” della “fermentazione di precisione”, un mezzo di moltiplicazione dei microbi per creare prodotti specifici. È stato utilizzato per molti anni per produrre farmaci e additivi alimentari e adesso gli scienziati la stanno adattando per dar vita a una nuova generazione di alimenti di base. I microbi allevati si nutrono di idrogeno o metanolo – che possono essere prodotti con elettricità rinnovabile – combinati con acqua, anidride carbonica e una piccolissima quantità di fertilizzante. Si può già produrre una farina che contiene circa il 60 per cento di proteine, una concentrazione molto più alta di quella che può raggiungere qualsiasi coltura principale (i semi di soia ne contengono il 37 per cento, i ceci il 20 per cento).

Quando vengono allevati per produrre proteine ​​e grassi specifici, possono creare sostituti anche migliori rispetto ai prodotti vegetali surrogati di carne, pesce, latte e uova. Il tutto in maniera più efficiente: si potrebbe arrivare ad avere una fornitura di proteine equivalente a quella data dagli allevamenti di tutto il mondo in un complesso di laboratori grande “soltanto” quanto l’area di Londra.

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