Santi, il pompiere di Barcellona che passa le sue ferie a salvare migranti | Diario di bordo dalla Open Arms
Open Arms | Reporter di TPI bordo | Giorno 13
Il mare si è calmato e la notte è stata tranquilla. Alle 6:00, ovvero il momento del cambio di guardia mattutino, le onde sono basse e la nave non balla più, cosa che in molti hanno apprezzato. Quando c’è mare mosso la vita sociale a bordo diminuisce, alcuni sono “mareadi” come si dice in spagnolo, altri invece semplicemente vogliono evitare di sbalzare da una parte all’altra del corridoio o delle scale. Il letto in cabina in questi casi è la miglior soluzione.
L’equipaggio nuovo si è ambientato subito, l’entusiasmo resta alto nonostante le onde e chi è rimasto nel cambio cerca di aiutare i nuovi per dare “continuità”. Santiago, detto “Santi”, è un ragazzone di 35 anni, silenzioso ma sempre attivo a bordo. È uno dei quattro soccorritori a bordo della Open Arms ed è l’unico che ha fatto sia la missione precedente che quella in corso.
Lo incontro sul ponte, e mi racconta un po’ di sé: “Nel 2010 ho iniziato a prepararmi per fare il pompiere, fino a quel momento ho lavorato come meccanico di moto ma la selezione è molto dura quindi ho deciso di dedicarmi quasi al 100 per cento nella preparazione del concorso”. Dal 2014 è uno dei pompieri di Barcellona, lavora nella stazione di Montjuic e spesso interviene anche nel porto. Il corpo dei “bomberos” è diverso da quello italiano, dipende dal Comune e non dal Ministero degli Interni e ogni città ha una gestione e organizzazione differente. “Di fatto Ada Colau, la sindaca, è la mia capa” mi dice Santi ridendo. “Ogni anno ci sono pochi posti, a volte 27, altre 80 e altre ancora 60. Devi fare dei test fisici, psichici e saper fare qualcosa di specializzato come l’elettricista o il meccanico. Una volta passati i test entri nell’accademia e per sei mesi studi la teoria e solo chi la passa può accedere agli ultimi sei mesi di pratica, prima di diventare un pompiere a tutti gli effetti”.
Essere un pompiere lo rende orgoglioso, lo capisco dagli occhi che si accendono mentre mi racconta gli interventi che fanno quotidianamente. Mi racconta anche che da un anno fa teatro e che la sua insegnante fa progetti con i rifugiati o direttamente in Africa o in Medio Oriente. “Quando nel 2015 Oscar Càmps ha lanciato la Ong Proactiva Open Arms sarei voluto partire, mi piace aiutare le persone e trovavo la cosa molto interessante. Però dopo anni ero riuscito ad entrare nel corpo dei pompieri e volevo concentrarmi sul lavoro. In più avevo una situazione a casa molto particolare e non ho voluto lasciare la mia famiglia da sola. La mia insegnante di teatro mi ha fatto tornare la voglia e poco tempo fa, per puro caso, sono passato a Badalona, dove ci sono gli uffici della Ong, e mi sono fermato per dire che sarei voluto partire…ed eccomi qua”.
Santi sta praticamente passando le sue ferie qua, a bordo di un rimorchiatore degli anni ’70 che pattuglia il mare in una zona dove l’unica cosa presente al di fuori dell’acqua sono le piattaforme petrolifere, dove i Paesi Europei, in primis l’Italia, gestiscono tutto e fanno affari. Le piattaforme Santi non le conosceva, non sapeva che in questa zona si estraesse e lavorasse il petrolio. Invece come sempre bisogna seguire i soldi per capire dove sta il problema alla base e oggi questo problema si chiama petrolio libico e controllo del Nord Africa.
Non basta ridurre la guerra in atto in Libia alla voglia di potere dei “due presidenti”, Al- Serraj e Haftar, c’è la necessità di capire che l’eurocentrismo è finito da qualche decennio e che oltre all’Italia e alla Francia, schierate su fronti opposti, ci sono la Turchia e gli Emirati Arabi che finanziano e armano rispettivamente il presidente del Governo di Tripoli, Al-Serraj, e il generale Haftar, che controlla la Cirenaica e molti territori della Tripolitania. In mezzo ci sono le persone ed in particolare i migranti che arrivano in Libia per poter arrivare in Europa ma che si trovano bloccati per mesi, a volte anni, nei centri di detenzione.
“Veniamo trattati come cani, anzi peggio” mi diceva una delle persone salvate da Mediterranea la scorsa settimana e in molti ripetevano “la Libia è un inferno, il luogo peggiore al mondo”. I migranti in Libia sono visti come bancomat che camminano, un modo per fare soldi facilmente. Vengono rinchiusi e torturati, le famiglie ricevono audio o video di quello che gli fanno e così pagano il riscatto per poter andare via e partire. Una volta in mare, vengono fermati dalla Guardia Costiera libica, che spesso è d’accordo proprio con i trafficanti, li riporta indietro e ricomincia il giro.
Na parlo con Santi, lui era sulla lancia accanto alla Alex, il veliero di Mediterranea, pronto a buttarsi in acqua se qualcuno fosse caduto a causa del sovraffollamento. Mi dice che la politica la segue poco ma che gli sembra tutta una farsa. “Dopo aver concesso il porto di Valencia all’Aquarius, il Governo spagnolo ha cambiato idea solo perché c’erano le elezioni e sapeva che accogliendo le persone avrebbe perso. Se una persona sta in mare che fai, la lasci là? Io penso che debba essere salvata e che solo dopo si possa discutere di dove e cosa possa fare”.
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