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Daniele De Rossi: bella bandiera pasoliniana nel tempo dei mercenari

Immagine di copertina
Daniele De Rossi. Credit: ANSA/SIMONE ARVEDA

De Rossi Roma – Ci deve essere un motivo che io non capisco. Una ragione suicida e autolesionista che nessuno spiega per cui la Roma americana ama triturare le proprie bandiere.

La storia di Daniele De Rossi, anche fuori dal raccordo anulare della Capitale, è una bella parabola sulla passione, ma anche sul nuovismo e sull’ingratitudine dei tempi moderni. Per questo non riguarda solo lui, o solo i tifosi della Roma, o solo quelli che amano il calcio.

Riassunto delle puntate precedenti. Tu hai un giocatore così affezionato alla maglia che ha giocato per diciotto anni solo con te, che è andato in campo con i legamenti di un ginocchio letteralmente spappolati, con il chiodo del dolore, o la lima del fastidio che ti abrade, ad ogni movimento.

Tu ti ritrovi in squadra un capitano che ha giocato il suo ultimo campionato con dedizione auto sacrificale stoica, e quasi poetica. Che è rimasto in campo ad allenarsi anche durante le feste di fine anno, che ha parlato con i suoi primi piani di sofferenza, anche quando era in panchina infagottato nel suo giaccone e muto.

Uno che finisce nei murales della sua città, effigiato da mani anonime. Uno che ha giocato ogni minuto di questo campionato, sia pure per un tempo centellinato dal suo calvario, con livelli di rendimento incredibile, con quelle indelebili scivolate salvatutto, fatte con lo spirito di un ragazzino. Un capitano davanti alla difesa.

E allora cosa fai, con uno così? Ovviamente lo mandi via. Si era detto di Francesco Totti che fosse un problema nello spogliatoio (e non era vero). Si era detto che fosse troppo ingombrante per la società, che desse fastidio, che si fosse montato la testa (e non era vero). Che impedisse agli altri di crescere (ed era una menzogna).

E che solo così si giustificasse il mobbing, (o meglio il “totting”) praticato su di lui con taletioso accanimento da Luciano Spalletti.

Bene, ora il giocatore è un altro, il mister pure, ma il risultato non cambia. Solo la società è rimasta la stessa, solo il suo presidente, il bostoniano. È la Roma americana che applica una versione grottesca della morale dei tempi: tutto deve diventare usa e getta, manda a casa la bandiera di oggi, perché ne devi trovare una nuova domani: tanto sono i marchi che contano.

Ed è per questo che le storie e gli uomini diventano un intralcio, devono cambiare. È così perché tutto deve diventare una etichetta, una griffe, un semplice logo, da gestire senza problemi.

Le “belle bandiere” di Pierpaolo Pasolini invece erano drappi infuocati nella polvere, stoffe cangianti color sangue, piene di passione. Le bandiere del marketing che piacciono tanto ai Pallotta, ai presidenti cino-italiani, agli uomini che vedono il calcio come una industria, sono fenomeni di marketing alla Cr7, con il sorriso plasticato e una tribù di manager, un coro di sponsor, gente che viene sempre bene nelle foto, e che si fanno il ritocchino dal chirurgo plastico.

Poi però, anche questi campioni levigati fanno il segno della paperella per dire ad un avversario che non deve parlare, magari perché è troppo basso.

Il primo piano di De Rossi, invece, era ed è la fotografia di una storia, di una vita vissuta, di uno che è partito palleggiando dagli stabilimenti di Ostia ed è diventato campione del mondo, anche se non era scritto da nessuna parte.

Io, oltre che a lui, farei un contratto a parte anche alle sue ultime cartilagini rotulee, a tutto quello che tiene insieme questa storia. Come se fossero una reliquia, un simbolo, un materiale del santo pronto per l’ostensione.

Sopravviveranno di certo, anche loro, al tempo degli uomini marketing e dei nani.

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