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Lo psichiatra che cura i migranti a Moria: “Allucinazioni, autolesionismo, suicidi. Un trauma collettivo si consuma alle porte di casa nostra”

Immagine di copertina
Bambini sul filo spinato nel campo di Moria. Credit: Soelvi Iren WESSEL-BERG / AFP

Parla Alessandro Barberio, dell'equipe di Medici Senza Frontiere: “Spesso sono le persone che li accompagnano a raccontarci la loro storia, perché i pazienti hanno difficoltà a parlare"

Moria è il più grande campo d’identificazione ed espulsione in Grecia, allestito sull’isola di Lesbo nel 2015 per identificare i richiedenti asilo e i migranti in arrivo dalle coste turche a quelle greche dall’Asia, dall’Africa e dal Medio Oriente. Per ridurre il flusso di persone, circa 861.000 arrivate via mare e via terra secondo l’Unhcr nel 2015, l’Unione europea ha stipulato nel 2016 un accordo con la Turchia, che prevedeva che in questi hotspot, a Lesbo e nelle altre tre isole greche di Samos, Kos e Kios, le persone fossero registrate e sottoposte a interviste per valutare il grado di vulnerabilità e l’idoneità alla protezione internazionale.

Quelli considerati non idonei dovevano essere rispediti in Turchia, la quale però non accetta migranti rimpatriati provenienti dalla terra ferma. La conseguenza è che le persone, prima di essere sottoposte alla commissione d’asilo, che può avvenire anche anni dopo l’arrivo a Lesbo, rimangono bloccate sull’isola, diventata così una prigione a cielo aperto. Il campo di Moria non è più solo un campo di transito, ma un accampamento dove i richiedenti asilo stanziano per anni in condizione igieniche, sanitarie e sociali decadenti.

C’è un bagno ogni 70 persone e non tutti riescono a procurarsi il cibo se non si svegliano all’alba per mettersi in fila. Gli ospiti vivono in cattività, alcuni subiscono e perpetrano violenze, o tentano il suicidio, perdono lentamente il loro senso di umanità, già messo alla prova nei paesi da cui sono fuggiti, principalmente Afghanistan, Siria e Iraq.

LEGGI ANCHE: L’isola di Lesbo sta diventando un manicomio a cielo aperto dove migliaia di rifugiati bambini tentano il suicidio

Alessandro Barberio è uno psichiatra dell’equipe del dipartimento di salute mentale di Trieste e ha testimoniato tutto questo a partire da gennaio del 2018, quando è arrivato per la prima volta a Lesbo per far parte dell’equipe di Medici Senza Frontiere (MSF).

Lavora con altri medici, psicologi e assistenti sociali nella clinica di Mitilene per dare sostegno psicologico agli ospiti di Moria, che oggi sono circa 7.000 in una struttura che può contenerne 3.100 e che a settembre scorso era arrivata a ospitarne 10.000 tra Moria e Olive Grove, l’accampamento informale che si è creato accanto ai container dell’hotspot. È tornato nel campo a gennaio dopo una pausa di un mese.

Racconta che nei suoi 15 anni di lavoro nel dipartimento di Trieste non aveva mai conosciuto una situazione simile.

“A Trieste avevo già curato migranti vittime di tratta o tortura, ma mai avuto a che fare con un numero così alto di persone che ogni giorno presentava gli stessi sintomi, con storie simili e stessi livelli di violenza subita. Chi arriva da paesi come il Camerun o il Congo, subisce una violenza devastante. Le persone sono perseguitate, vedono i propri cari morti davanti a loro, fratelli decapitati”.

“Questa violenza li insegue fino a Moria, dove le condizioni del campo non li tranquillizzano, ma anzi fanno esplodere i sintomi. Alla sindrome post traumatica da stress, si aggiungono allucinazioni visive e uditive, angoscia elevata, confusione, disorganizzazione, che a volte li porta a tentare il suicidio: se per giorni non riesci a dormire perché senti o vedi continuamente allucinazioni minacciose, collegate agli episodi di violenza, sei portato a fare anche questo”.

Secondo le stime dell’Unhcr, gli ospiti del campo di Moria provengono anche dalla Repubblica Democratica de Congo, dalla Palestina e dall’Iran. Per Alessandro le cause dei loro disturbi così gravi non sono solo le violenze subite nei paesi di provenienza, ma anche le condizioni deteriorate del campo.

“I migranti arrivano a Moria già provati dall’efferatezza delle loro esperienze, ma qui le cose peggiorano. A volte è difficile avere accesso ai pasti, si dorme in tenda senza riscaldamento né servizi igienici. Due settimane fa si è incendiata una tenda a Olive Grove, dove dormivano circa 100 persone. Ho iniziato a fare dei gruppi di 20 persone per gestire lo stress perché ora, nelle tende più piccole dove si trovano, hanno paura di dormire. Per fortuna non è morto nessuno perché l’incendio è avvenuto di giorno, ma sono comunque sconvolti”.

“Nell’ultimo periodo il campo è meno affollato perché le autorità hanno spostato molte persone, ma non hanno risolto il problema. Le liste d’attesa per ottenere la prima commissione d’asilo non si sono ridotte. Alcuni pazienti che ho visitato a ottobre avranno la prima intervista nel 2020. È quest’assenza di prospettiva unita alle condizioni precarie ad aggravare il disturbo dei pazienti”.

Dal 2016, nella clinica di Mitilene e in quelle mobili allestite davanti all’hotspot, le équipe di MSF a Lesbo hanno condotto circa 10.900 consultazioni. Ma Barberio racconta che a causa delle allucinazioni e dello stato confusionario, non è sempre facile parlare con i pazienti.

“Spesso sono le persone che li accompagnano a raccontarci la loro storia, perché i pazienti hanno difficoltà a parlare. Il trauma è così grave che non si può esprimere, non si può toccare. La nostra prima valutazione è basata su quello che vediamo. In caso di sintomatologia acuta cerchiamo di vedere il paziente il più possibile, anche due o tre volte a settimana, per costruire una relazione terapeutica stabile e dare farmaci utili”.

“Nel giro di poche settimane le allucinazioni scompaiono e tutti stanno meglio, riescono almeno a vivere quotidianamente. I sintomi psicotici guariscono. Poi rimane tutto il resto: bisogni sociali, legali, lunga attesa per la prima intervista. Le persone affette da sintomi psichiatrici in Italia possono avere tanti bisogni, ma almeno hanno accesso a una serie di servizi. Qui no. Ci sono i social workers che danno una mano ma non basta, il disagio resta finché resta questa policy di contenimento. Il futuro non dipende dai medici o dalle Ong, che fanno il possibile, ma dalle possibilità che l’Europa offrirà”.

Msf ha richiesto più volte all’Unione europea di evacuare il campo di Moria e di terminare l’accordo con la Turchia, che costringe le persone a rimanere bloccate a Lesbo e nelle altre tre isole greche che fanno parte del patto e vertono in simili condizioni.

A ottobre del 2018, dopo aver denunciato tentativi di suicidio anche tra i minori, l’Ong ha domandato che almeno i più vulnerabili potessero essere trasferiti sulla terra ferma. Questo non è avvenuto e le autorità hanno trasferito alcune persone in altri centri, ma sempre all’interno dell’isola.

“Evacuare è una soluzione, ma non per trasferire gli ospiti in altri campi”, dice Alessandro. “Bisogna adottare una policy diversa e condurli in luoghi dove hanno accesso a cure e servizi di base, e la possibilità di iniziare un processo d’integrazione. Il trasferimento non è una soluzione. Vuol dire solo spostare il problema, come spostare e nascondere la polvere sotto il tappeto. Anzi, il trasferimento per alcuni vuol dire anche rompere il rapporto benefico che si è creato con noi, e generare un nuovo trauma, continuare a spezzare una vita già distrutta”.

“Se si bloccano i migranti in Turchia o in Grecia, senza mettere in atto altri interventi di sostegno e di cura, la pressione di questo trauma collettivo diventerà sempre più forte ed esploderà”.

Barberio parla di un vero e proprio trauma collettivo che si sta consumando alle porte di casa nostra, e che per questo coinvolge anche tutti noi.

“Molti dei pazienti seguiti fino ad ora presentavano una sintomatologia simile, l’efferatezza della violenza subita che spezza vite e anime era simile, così come il gruppo di appartenenza. Queste sono le caratteristiche di un trauma collettivo. Come tutti i traumi collettivi, può avere una trasmissione generazionale ma può trasmettersi a distanza anche nella stessa generazione”.

“A cerchi concentrici gli effetti possono trasmettersi anche nelle nostre società europee, senza che ce ne rendiamo conto. A Lesbo possiamo controllare le nostre reazioni perché siamo vicini, ma non nel resto d’Europa. Quando si sa del problema, dopo una prima reazione di diniego, scatta una specie di meccanismo d’identificazione. Non puoi fare a meno di pensare: ‘Io potrei essere lui, patire le stesse sofferenze, siamo di nazionalità diverse, ma siamo uguali, facciamo parte dello stesso genere umano. Potrebbe succedere anche a me’. Ma preferiamo non soffermarci, perché questo ci costringerebbe a pensare che sia necessario trovare un’altra soluzione”.

Da quando l’accordo con la Turchia è stato stipulato, gli arrivi sulle coste greche si sono ridotti del 70 per cento circa, eppure le persone continuano ad arrivare, 50.000 solo nel 2018. Nel frattempo, secondo i dati della Commissione europea, il numero di quelle rimpatriate in Turchia è notevolmente minore: 2.224 in quasi tre anni, da marzo 2016 a dicembre del 2018.

Questo significa che la maggior parte di chi arriva resta nel limbo dell’isola, dove l’inverno, il freddo e la pioggia non fanno che peggiorare la situazione per chi dorme in tenda, tra il fango e la pioggia delle strutture fatiscenti di Olive Grove.

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