La portavoce della Sea Watch a TPI: “Non potevamo andare in Tunisia, ecco la verità sul perché abbiamo fatto rotta verso l’Italia”
Intervista a Giorgia Linardi, referente italiana della Ong: "Abbiamo chiesto riparo a Tunisi ma non abbiamo avuto risposta, visti i precedenti abbiamo preso la rotta meno rischiosa, andando verso nord"
TPI ha intervistato Giorgia Linardi, portavoce italiana della Ong Sea Watch sul caso della nave Sea Watch 3, bloccata al largo della costa di Siracusa con a bordo 47 migranti in attesa di un’autorizzazione a sbarcare in un porto sicuro [qui tutti gli aggiornamenti sul caso].
Siamo stati noi, attraverso il nostro team a bordo e quello in Olanda, a contattare le autorità olandesi per chiedere un porto di rifugio dove poter evitare la tempesta. Il Centro di coordinamento marittimo olandese ha chiesto a quello italiano e a quello maltese la possibilità di un riparo.
La risposta è arrivata solamente da Roma in cui si diceva che Lampedusa, in quel momento il porto più vicino in quanto ci trovavamo proprio davanti l’isola, non era adeguata per un riparo rispetto al ciclone in arrivo da nord-ovest.
Solo a quel punto le autorità olandesi hanno chiesto alla Tunisia la possibilità di un riparo, ma né noi né le autorità olandesi abbiamo ricevuto risposta. Nei mesi scorsi ci è stato vietato l’ingresso in Tunisia anche solo per fare rifornimento, lasciandoci per 5 giorni in mezzo alla tempesta. Viste le condizioni, il comandante della nave ha preso la rotta meno vessatoria, quella a nord.
Perché un procuratore della Repubblica aveva chiesto al comandante e al capo missione di testimoniare per un’indagine che sta portando avanti sul naufragio del 18 gennaio, in cui morirono circa 117 persone. Quindi non siamo entrati in acque territoriali di nostra iniziativa, c’era un invito a testimoniare e l’equipaggio si era messo a disposizione ma, a causa del rifiuto della Guardia Costiera, non abbiamo potuto farlo.
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Abbiamo chiamato più volte Tripoli ma nessuno rispondeva. Non è la prima volta che succede. Solo una volta hanno risposto e abbiamo provato a comunicare in inglese, francese, italiano e arabo egiziano ma non siamo riusciti a capirci. La telefonata è finita con un comandante della Guardia Costiera di Tripoli che ha attaccato.
Nei giorni successivi abbiamo chiesto supporto a tutti i centri di coordinamento marittimi ma nessuno ci ha risposto. Solo l’Italia ci ha rimpallato di nuovo a Tripoli.
A bordo la situazione è difficile, con noi c’era anche uno psichiatra che sta lavorando ad un referto medico. A bordo mi sono sentita finalmente a mio agio, ho respirato un’aria diversa da quella che c’è a terra. Nonostante siano a due minuti e mezzo dalla costa, riescono ad avere una pazienza e una delicatezza incredibile. Ci hanno osservato e parlato tutto il giorno, cercano di capire come si possa sbloccare questa situazione. Credo ci abbiano dato una grande lezione di umanità.
Mentre andavamo via, le persone a bordo ci salutavano e ringraziavano. Ho pensato che quella nave rappresenta tutto quello in cui credo, come giovane donna italiana ed europea. I diritti umani fuori da lì vengono calpestati continuamente da giorni. Quelle 47 persone non sono delle merci e il mio paese non è una dogana.
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