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Goffredo Bettini a TPI: “Il Pd? L’unica alternativa alla destra è Zingaretti”

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Pd: in quale direzione si sta andando secondo lei? Cosa c’è da aspettarsi per i prossimi mesi?

Finalmente il congresso del Pd è stato convocato con una decisione irreversibile. Dico finalmente, perché l’assenza di una reazione e di un confronto vero e approfondito dopo il 4 marzo, mi ha preoccupato persino più del nostro crollo elettorale.

Spero in un congresso civile, in grado di suscitare una discussione sulle diverse piattaforme programmatiche, di comprendere le ragioni delle nostre difficoltà e di rilanciare una speranza. Dovremmo bandire, in quella sede, fanatismi e pregiudizi; personalizzazioni e mere contese sul potere. Qualche settimana fa auspicai la candidatura di tutte le personalità con sensibilità e storie diverse. Mi pare si stia andando in questa direzione.

Oltre a Nicola Zingaretti avremo sicuramente nella competizione altri autorevoli dirigenti. A questo punto, persino, con profili che si sovrappongono. Penso a Richetti, Martina e Minniti; i quali in forme diverse sono stati in questi anni protagonisti dell’esperienza di Renzi.

Qual è il candidato su cui punta?

Al momento la candidatura che più mi convince è quella di Zingaretti. È la sola che può garantire il cambiamento necessario. Non ha partecipato alla stagione precedente, conclusa, purtroppo, con un drammatico arretramento del Pd.

Anzi, in autonomia e persino alterità, ha vinto sempre, grazie ad un voto diretto degli elettori. Fa parte di una generazione ancora giovane, ma esperta. Voglio ricordare che ha diretto organizzazioni territoriali, internazionali e ha affrontato responsabilità di governo con efficacia, onestà e tenacia.

È, dunque, un buon amministratore. Si è occupato, inoltre, di politica estera; tema decisivo per la formazione di un segretario di partito. È, infine, pacato, misurato, rispettoso degli altri e consapevole dell’indispensabilità di una squadra. Sì, Zingaretti mi ispira fiducia.

D’altra parte lo conosco da quaranta anni e ho potuto constatare via via la crescita delle sue capacità e della sua autorevolezza. Debbo dire che anche gli altri candidati individualmente sono di notevole valore. Vedremo i rispettivi indirizzi ideali e programmatici. Comunque, cercherò di dare un contributo di idee all’insieme delle forze in campo.

All’interno del partito è arrivato il tempo dell’autocritica?

Dal congresso mi aspetto una chiara e sincera autocritica e un tentativo di rilancio. L’autocritica non si può limitare agli ultimi anni. È da un bel pezzo che è iniziata e poi allargata una frattura tra le elité della sinistra democratica e la gente comune.

Per quanto riguarda l’inadeguatezza della forma partito e il suo carattere burocratico, apparatizio, e conchiuso in se stesso, le difficoltà iniziano dal triennio ’89-’92. È stato il triennio del crollo dei partiti di massa che avevano sorretto la Repubblica dal dopoguerra.

La loro degenerazione cadde sotto i colpi della magistratura, perché la politica non seppe cogliere l’intuizione di Enrico Berlinguer che già nel 1981 in una memorabile intervista a Eugenio Scalfari, aveva colto pienamente che l’assetto istituzionale e della democrazia italiana non reggeva più. Tuttavia quei partiti avevano rappresentato per più di trenta anni il canale fondamentale di rappresentanza, di partecipazione, di coesione delle grandi masse popolari nella dimensione pubblica e politica.

Crollati qui partiti la sinistra si sarebbe dovuta porre come problema principale, la ricostruzione in forme nuove di quel rapporto intimo e riconosciuto che si era stabilito tra i cittadini e il potere nella prima fase della Prima Repubblica. Invece, per vari motivi che non ho qui il tempo di approfondire, la sinistra ebbe come assillo principale la presa del governo. Governo, governo e solo governo. In quella dimensione abbiamo fatto anche cose importanti e comunque assai migliori degli altri.

Ma abbiamo trascurato che in assenza di un soggetto politico in grado di sorreggere la nostra azione dal basso, camminavamo su trampoli incerti. Fino alle drammatiche distanze tra il Pd e la parte più sofferente dell’Italia che hanno determinato la nostra marginalità nei quartieri più poveri e popolari e la nostra tenuta in quelli di ceto medio alto.

Il secondo fenomeno, collegato al primo, è stato che, in assenza di una nostra radice nella vita vera, non ci siamo accorti che le condizioni degli italiani stavano progressivamente peggiorando.

Le ingiustizie, infatti, negli ultimi vent’anni sono aumentate, fino al punto che i redditi delle fasce più deboli dei cittadini sono calati del 28 per cento mentre i ricchi sono diventati più ricchi. Continuiamo a riempirci la bocca della parola “riformismo”.

Ma che razza di riformismo abbiamo praticato, se, anche con noi al governo, le distanze sociali si sono divaricate? Che cos’è il riformismo? Dovrebbe consistere in uno sforzo di trasformazione emancipativa che invece di realizzarsi per via rivoluzionaria, violenta e in un sol colpo sceglie una strada graduale, pacifica, rispettosa della sacralità delle persone, ispirata a valori di libertà.

Ma sempre, anche per questa via, di trasformazione emancipativa si deve trattare. Sennò la parola riformismo, non nomina più niente, diventa un modo gergale di fare intendere che si è moderni, una parola talmente mal detta da diventare maledetta. È successo, un po’, quello che Mario Tronti ha descritto con fulminante sarcasmo: “molte volte abbiamo scambiato il nuovo con il vecchio che vince”.

Quale sarà il suo ruolo? Quali idee metterà in campo?

Nel congresso mi impegnerò, dunque, per una nuova collocazione politica, programmatica e culturale del Pd. Politica, in quanto occorre recuperare un asse democratico e di sinistra limpido. Lo ha ricordato in una bella intervista anche Dario Franceschini, che viene da una tradizione diversa dalla mia. Senza il recupero in un campo largo di tutte le forze anche della sinistra non ci potrà essere alcuna alternativa alla destra italiana.

Programmatico, perché occorre rimettere al centro di un’idea di società la solidarietà, il riequilibrio sociale e la riduzione drastica della povertà. In Italia, oggi, ci sono cinque milioni di poveri. Inoltre l’azione di un governo guidato da noi dovrebbe considerare prioritari gli investimenti, l’occupazione dei giovani, lo sviluppo della ricerca, della scuola e dell’università, la difesa dell’ambiente, intesa anche come occasione di nuovi posti di lavoro in settori inediti e di qualità.

Infine, occorrerebbe affrontare il tema delle città, così abbandonate e colpite con tagli drammatici nei servizi e nel recupero urbanistico e infrastrutturale. Tutto il contrario di ciò che sta facendo il governo Di Maio e Salvini.

Al di là delle loro paurose incompetenze e oscillazioni quello che viene fuori è un misto di privilegi di classe, come la flat tax e investimenti tampone e a pioggia per rispondere a improvvisate promesse elettorali. Infine è necessario sfatare alcuni miti che ci hanno paralizzato, portandoci ad agire sul terreno dei nostri avversari.

Il mito che lo stato è sempre solo spreco e corruzione; quando andrebbe ricordato che non ci sarebbe neppure Google se non ci fossero stati ingentissimi investimenti pubblici da parte del governo della California e di quello federale; il mito che i mercati sono sempre sani e si auto regolano, quando è evidente l’invadenza della finanza, della speculazione, delle lobby degli interessi e politiche che distorcono la concorrenza.

Il mito che se crescono le parti più benestanti della società, giù per i rami ne hanno un beneficio tutti quando, come ho ricordato, all’aumento della ricchezza dei ricchi ha corrisposto un ulteriore impoverimento dei poveri.

Guardando indietro, ai tempi della formazione del governo giallo-verde, quali sono stati gli errori del Pd?

Nell’immediato spero che si possa anche sfruttare adeguatamente la conflittualità nell’alleanza giallo-verde. Essa non è e non sarà un fatto episodico. Abbiamo compiuto il madornale errore di considerare la Lega e 5 Stelle la stessa cosa, regalando la Salvini un consenso che non è suo.

Anche i nostri errori hanno aiutato a metterli insieme in uno strano accrocco di potere. Oggi è evidente che nel governo vivono due anime. Una ispirata all’anti politica, l’altra ad una destra organica, collegata al peggio dell’Europa, xenofoba e razzista, illiberale e prepotente. È del tutto evidente che se vogliamo far politica, uscendo dalla pura propaganda, occorre considerare queste due realtà nelle loro diversità. Nessuno propone un’alleanza con i 5 Stelle. Sbagliata ed anche pura illusione.

La questione è come si articola la nostra lotta, si aprono le contraddizioni dei nostri avversari, si parla ai tanti elettori che ci hanno abbandonato. Non so quando maturerà la crisi del governo. Ma sicuramente maturerà. E noi dobbiamo essere pronti a raccogliere i delusi, i dispersi che magari, sulla base dell’esperienza, si potranno rivolgere a noi, se ad essi saremmo riusciti a parlare in modo intelligente, ragionevole e pacato.

L’Europa, come la intendiamo oggi, è in pericolo? Quali sono gli aspetti che andrebbero cambiati?

L’illusione sovranista è un suicidio. Ogni stato europeo si troverebbe debole ed esposto, se solo, di fronte alle potenze che attualmente stanno conquistando il mondo, a partire dalla Cina. Il sovranismo, per molti aspetti è destinato a evidenziare sempre più la sua debolezza strategica. Eppure attualmente si presenta come pericoloso e, può tramutarsi in un nazionalismo autoritario e fanatico che richiama alla più terribili esperienze del Novecento europeo.

Questo perché se l’Europa è indispensabile, questa Europa non è credibile e non suscita un consenso sufficiente tra le popolazioni. Dunque va radicalmente cambiata. Non penso solo alla necessità di rimettere mano ai trattati. Penso che qui e ora, con le regole vigenti, si debba indicare una via del tutto nuova. Superare quella dimensione tecnocratica e astrattamente sovraordinata che l’Unione ha assunto negli ultimi anni. E poi superare l’austerità, imposta dalla Germania per i suoi interessi, che ha depresso le economie delle altre nazioni, producendo deflazione e decrescita.

E infine superare quella paura, che è un riflesso malato di nazionalismo, nel procedere all’integrazione politica e delle fondamentali politiche; quella fiscale, di bilancio, sociale, della cultura, dell’università e della scuola, della difesa e delle infrastrutture strategiche.

Nel mio ultimo libro “Agorà” invoco una sorta di patriottismo europeo. Il nazionalismo dovunque nasca porta al conflitto e alla separazione, il patriottismo è un sentimento, invece, positivo; è il riconoscimento delle proprie radici e di propri talenti che vanno messi a disposizione di un progetto più grande, quello europeo, che deve essere sentito come la nostra patria e che la storia oggi ci chiede per essere all’altezza delle sfide che abbiamo dinanzi.

Il prossimo voto al parlamento europeo si gioca su queste questioni. Dobbiamo batterci per politiche espansive, per una unità politica dell’Europa che si fondi su un ruolo maggiore del parlamento e su forme rappresentative e democratiche più certe e vicine ai cittadini. Occorre ritornare a quello spirito costituente emancipativo che fin dall’inizio della nascita dell’unione è stato presente e ha combattuto contro l’asservimento dell’Europa alle pure leggi del mercato, costruendo un esempio di società solidale e protettiva che per decenni ci ha invidiato tutto il mondo.

In sostanza: l’Europa non può star ferma. O va avanti o si disintegra. Attorno a questo dilemma occorre riunire tutte le forze della sinistra, dell’ambientalismo, delle associazioni femminili e territoriali in una lista unitaria e ampia, in grado di collaborare e allearsi, per fermare le destre, con le componenti liberali, anti sovraniste e moderate disponibili a una azione comune.

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