L’assurda storia dei bagni di Lampedusa: ci sono ma non si possono usare per colpa della burocrazia | Diario di bordo dalla nave Mare Jonio
La nave di Mediterranea è ripartita da Palermo per missioni di salvataggio dei migranti e pattugliamento. Il reporter Valerio Nicolosi tiene un diario di bordo per TPI
Giovedì 1 novembre, alle 14 circa, la nave Mare Jonio della missione Mediterranea ha lasciato il porto di Palermo e si sta dirigendo nel Mediterraneo centrale per una nuova missione di pattugliamento. A bordo, oltre all’equipaggio, c’è il reporter Valerio Nicolosi, che tiene un diario giornaliero per TPI.
Nella sua prima missione, iniziata lo scorso 4 ottobre e durata 12 giorni, Mare Jonio ha raccolto segnalazioni e SOS di navi in difficoltà. Il 12 ottobre ha contribuito a salvare 70 persone in pericolo al largo di Lampedusa, dopo il rimpallo di responsabilità tra Malta e l’Italia. L’obiettivo di Mare Jonio è quello di tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su quanto accade nelle acque a sud della Sicilia.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato la nuova missione della nave Mare Jonio con un tweet: “Buon viaggio, baci, abbracci e porti chiusi”.
Il reporter Valerio Nicolosi aveva già tenuto un diario di bordo in occasione della prima missione della nave, raccontando le attività svolte dall’equipaggio e le missioni di salvataggio.
Diario di bordo dalla nave Mare Jonio
Quarto giorno – lunedì 5 novembre
“Ci sono i bagni ma non possiamo usarli, sono chiusi”.
La sosta a Lampedusa ci ha permesso di scoprire una piccola storia assurda, di quelle che a spiegarle si fa davvero difficoltà e a raccontarla è Pietro Bartolo, medico di Lampedusa e simbolo dell’accoglienza nell’isola, un fazzoletto di terra più vicina alla Tunisia che all’Italia.
Bartolo è la persona che dal 1992 si occupa delle prime visite ai migranti che arrivano dal mare.
La sua attività è diventata famosa grazie a una serie di servizi giornalistici a lui dedicati ma soprattutto per la scena del film “Fuocoammare” in cui visita i migranti aiutandosi con la luce del telefono.
Nel 2016 venne Matteo Renzi in visita nell’isola e il medico alla domanda “Cosa possiamo fare per migliorare il vostro lavoro?”, chiese la possibilità di ristrutturare la banchina, mettere delle luci e costruire dei bagni.
La questione dei bagni in questi casi è fondamentale perché dà dignità e un minimo di riservatezza a delle persone che hanno appena fatto una traversata senza poter accedere a questo tipo di servizio.
“Le donne in particolare ne hanno bisogno”, ci dice il medico ed effettivamente in mare come in terra sono sempre le più svantaggiate. Così nel 2016 parte l’iniziativa dell’ex primo ministro e nel luglio 2017 vengono consegnati i bagni insieme all’illuminazione e al rifacimento in asfalto della banchina.
250mila euro di spesa totale e la consegna da parte della protezione civile alla prefettura di Agrigento. A quel punto inizia un lungo travaglio che ancora è lontano dal terminare.
Dalle verifiche risulta che il problema è l’assenza della gestione di questi bagni nel capitolato d’appalto della Prefettura che assegna anche la gestione del centro d’accoglienza.
Infatti i bagni oltre ad essere aperti hanno bisogno di pulizia e questa ha un costo per il personale impegnato. All’epoca i gestori erano Consorzio Opere di Misericordia e la Croce Rossa Italiana.
Oggi invece la gestione dell’hotspot è in mano alla Facilities Service di Palermo ma il risultato non cambia: i bagni restano chiusi e i migranti sono obbligati a fare i proprio bisogni in un’intercapedine tra i bagni stessi e il muretto antistante.
È una delle vicende assurde italiane per cui spendiamo soldi pubblici per un’opera giusta e di civiltà e la teniamo chiusa perché vogliamo rendere la vita difficile a chi già vive in un inferno chiamato migrazione.
“Oltre che in mare abbiamo tanto da fare anche a terra”, mi dice Stefano, uno dei volontari di Mediterranea che ha preso le ferie per venire in barca e mettere a disposizione il suo sapere.
Lui è infermiere e collabora con il medico di bordo in caso di soccorso. Oltre a Stefano però i veri “eroi quotidiani” sono i tanti ragazzi e ragazze che da oltre un mese lavorano a questo progetto con dedizione.
Avvocati, esperti di navigazioni, antropologi culturali, mediatori, skipper. È facile e riduttivo dire che questa sia la nave dei centri sociali. Questa è la nave delle persone normali che si mettono a disposizione della collettività e in questo momento sono pronti a salpare di nuovo.
Terzo giorno – domenica 4 novembre
“Il meteo è cambiato all’improvviso e questo purtroppo a novembre può succedere. Da una perturbazione di media intensità ci troviamo in mezzo a due molto forti”. Questo me lo dice Roberto, uno dei marinai della Mare Jonio che lavora in mare da oltre 25 anni e aggiunge:”Io del mare non ho paura, ma lo rispetto molto! Noi da qui ce ne dobbiamo andare”.
Questo è stato il punto di svolta di una giornata lunga e difficile iniziata la mattina alle 5.30 con il ‘solito’ turno di guardia in avvistamento che mi consente anche di scattare foto con la luce migliore.
La notte era già stata molto movimentata e il sonno se ne era andato molto prima però in nave questo lo si mette in conto senza problemi. Quello che invece non avevamo messo in conto era che la ‘finestra’ di meteo accettabile che avevamo per andare verso sud sarebbe cambiata così all’improvviso e ci avrebbe preso su due fronti contemporaneamente.
“Non vediamo più la Alex e non riusciamo a parlarci!”. Questa comunicazione sul ponte arriva poco dopo aver cambiato rotta e nel momento in cui le condizioni di tempo stavano peggiorando. Ovviamente la prima reazione istintiva è di panico ma poi per fortuna bordo si resta lucidi e con una manovra veloce torniamo indietro a ‘prendere’ la nostra nave d’appoggio per accompagnarla e portarla con noi fino a Lampedusa.
Una persona che sa poco di mare potrebbe dire: “Ma non potevate controllare il meteo?”. E in effetti ieri su Twitter tantissime persone che solitamente è pronta alle critiche nei confronti di queste missioni hanno iniziato a rispondere con un “Nettuno ha ascoltato le nostre preghiere” oppure “non vi spaventate per un po’ di mare” o anche “i libici hanno delle belle motovedette per salvarvi”, a cui avrei aggiunto un “pagate da noi”.
Per fortuna c’è anche chi è esperto di mare e ha scritto: ”Un rimorchiatore non va giù con quel mare ma i problemi potevano essere per l’equipaggio e il comandante ha fatto rotta sul porto riparato, tutt’altro che sprovveduto, solo prudenza del buon marinaio”.
Ecco, diciamo che da casa con una tastiera e uno smartphone davanti è tutto facile. Quando però sei in mare e hai deciso di attraversare una perturbazione non così forte per poter essere in zona SAR in tempo utile per fare pattugliamento in un momento in cui il meteo sulle coste libiche è buono, la situazione è differente.
Il vomito (tanto), la sonnolenza e lo spaesamento per una giornata intera, il digiuno assoluto fino a sera, tanto da avere conati senza più nulla da espellere e un mal di gola per lo sforzo. Tutto sopportabile se si è deciso di andare a fare un’;operazione umanitaria di pattugliamento e soccorso.
Per quanto mi riguarda non è la prima volta e non sarà l’ultima che vedo il mare così agitato, ma è proprio quella paura che incute che ti porta a pensare che è giusto e legittimo fare questo tipo di operazioni. Noi eravamo su un rimorchiatore da 35 metri che può affrontare questo mare rischiando qualcosina, i recuperi a cui ho partecipato in mare erano sempre su gommoni di massimo 10 metri con più di 100 persone a bordo o su barconi da 8 o 15 metri con oltre duecento persone.
Se il mare fa paura a noi quanto deve far paura a loro? Su questo argomento non mi soffermo nemmeno a rispondere a chi sui social forte del suo essere al sicuro risponde ”potevano stare a casa” perché è chiaro che solo chi è disperato si mette nelle braccia di Nettuno incrociando le proprie dite e pregando di arrivare vivo.
Noi alla fine siamo arrivati a Lampedusa e ci siamo riparati nella parte calma dell’isola. I postumi del mal di mare passano e oggi approfittiamo per uno scalo tecnico. Il meteo nei prossimi giorni è perfetto quindi le possibilità di partenze aumentano. Noi siamo qui per questo.
Secondo giorno – sabato 3 novembre
“Stiamo cambiato rotta. Il mare è troppo mosso e la nave rischia di danneggiarsi. Abbiamo appena passato la fase più brutta”. In aggiornamento
Primo giorno – venerdì 2 novembre
“Questo tipo di missione è la più semplice che si possa immaginare. Ci sono delle persone in mare che sono in pericolo e noi le salviamo. Non c’è altro da aggiungere”. Riccardo Gatti è categorico in questo e non lascia spazio a repliche durante una chiacchierata che stiamo facendo a cena la sera prima di salpare.
Forse avrei dovuto chiudere con questa frase ma iniziando un nuovo diario di bordo, esattamente il terzo in 3 mesi, ho preferito partire proprio da questo concetto molto semplice che troppo spesso viene messo in discussione da discorsi retorici su diritti d’asilo o motivi della fuga. C’è una persona in mare, io la aiuto.
Come se foste in montagna in condizioni meteo pessime, ci fosse un solo rifugio con pochi posti e qualcuno bussasse a quella porta. Non aprireste? Non lo lascereste entrare facendo un po’ di spazio?
Ecco, le missioni umanitarie stanno costruendo dei rifugi in acqua, rifugi che si spostano e che dicono alle persone: “Entra, noi siamo umani”.
Poi c’è tutta la questione a terra che è fondamentale ma quella rientra nella sfera politica che vista da qui è davvero lontana.
“La politica si fa dentro le 12 miglia, dopo iniziano le acque internazionali e la politica intesa come la si intende a terra non ha più effetto, svanisce”. Questo io e Riccardo ce lo siamo detto tante volte nelle chiacchierate notturne e diurne che ci siamo fatti nelle precedenti missioni e credo che possa racchiudere un po’ il senso e lo spirito di queste missioni.
Visto che ho iniziato dalla fine ora devo tornare indietro facendo un bel salto indietro a quando è arrivato il primo messaggio da parte di Maso Notarianni che mi dice: “Ripartiamo, sei dei nostri?”
Da giorni andavo ripetendo che non sarei ripartito perché la stanchezza delle missioni precedenti e del lavoro a Gaza aveva preso il sopravvento. Invece così non è stato perché c’era qualcosa di incompiuto nella missione precedente, quindi il tempo di due chiamate e soprattutto di una lunga chiacchierata con Valentina, mia moglie, e ho scritto a Maso: “Fermi, ci sto! Lasciatemi il posto a bordo…quando si parte?” e il problema era proprio questo: “Quando?”. Potevamo fare delle ipotesi che però sarebbero state smentite per forza di cose dai controlli della capitaneria di porto che doveva dare l’assenso a partire dal porto di Palermo e sapevamo che non sarebbe stato facile.
“Si parte giovedì mattina”, “Si parte Sabato”, “Partiamo domani”, “Un ultimo controllo e partiamo. Forse domani mattina”. Diciamo che senza entrare nei dettagli delle ispezioni il riassunto può essere quello di una frase di un marinaio: “In 20 anni di lavoro non mi hanno mai chiesto tutte queste cose, assurdo”. La prassi è questa e lo sa bene Sea Watch, la ONG tedesca che è parte del progetto “Mediterranea” e che a Malta ha avuto ferma per 3 mesi la nave “Sea Watch 3” perchè posta sotto sequestro dalle autorità per delle indagini. La burocrazia come strumento politico e controllo di chi salve persone in mare e in questo modo fa emergere le contraddizioni delle politiche europee sulle migrazioni.
Alla fine la “Mare Jonio” ha avuto l’ok definitivo a partire e ha lasciato il porto di Palermo per una nuova missione. Stavolta oltre alla collaborazione fissa di Sea Watch sia a bordo che con l’aereo “Moonbird” guidato dai piloti dell’associazione svizzera “Humanitarian pilots initiative” c’è anche l’apporto tecnico di Proactiva Open Arms, la ONG spagnola che è presente con il suo capo missione Riccardo Gatti. Italiani, tedeschi, svizzeri e spagnoli tutti insieme per supplire alle mancanze dei governi europei.
Oltre alla mare Jonio c’è anche una barca d’appoggio dove c’è il resto dell’equipaggio: attivisti, giornalisti e avvocati. Ognuno con il suo ruolo e in una macchina che in caso di necessità deve essere perfetta. Prima di uscire in mare però è necessario fare dei brefing e di questo se ne sono occupati Kim, un soccorritore di Sea Watch e Riccardo di Open Arms. Anni di soccorsi in mare per organizzare al meglio il lavoro durante una fase molto delicata.
In questo momento stiamo per entrare in zona SAR e da adesso in poi si inizia a fare sul serio. Ogni momento può essere buono per una segnalazione o un avvistamento. La politica resta a terra così come le polemiche su questo progetto che si sta autofinanzando attraverso una raccolta fondi fatta da persone normali. Perchè questo siamo: non eroi ma persone semplici, che hanno capito che c’è un problema e hanno messo a disposizione quello che sanno fare per risolverlo.
La nave Mare Jonio
Il progetto vede tra i promotori varie associazioni, onlus, ong tra cui Arci nazionale, Ya Basta di Bologna, la ong Sea-Watch, il magazine online I Diavoli e l’impresa sociale Moltivolti di Palermo.
I garanti del progetto sono un gruppo di parlamentari, tra cui Nicola Fratoianni ed Erasmo Palazzotto, con il sostegno di esponenti del mondo della cultura e della società civile.
La Mare Jonio è composta da 7 sette uomini d’equipaggio a bordo e 4 volontari, e si trovava da alcune settimane a Palermo per uno scalo tecnico.
Dopo alcune riparazioni e rifornimenti, Mare Jonio è ripartita. Sull’albero maestro dell’imbarcazione, accanto alla bandiera italiana, sventolano anche i colori di Palermo.
Alla missione partecipa anche Riccardo Gatti di Proactiva Open Arms, oltre a un team di soccorso in mare della Ong tedesca Sea-Watch, che è partner del progetto.
Qui i diari di Valerio Nicolosi per TPI.it dalla nave Open Arms e dalla Striscia di Gaza.