“Io, prigioniero dell’Isis in Siria: vi racconto le torture che ho subito e la fuga con i miei figli malati verso l’Italia”
La storia di Osama e il suo inferno nelle carceri del sedicente Stato Islamico, tra violenze, morte, processi sommari e umiliazioni di ogni tipo. E poi il ritorno in libertà e la fuga tormentata con la moglie e i loro cinque bambini, tre dei quali malati di talassemia
Osama non avrebbe mai immaginato che, a meno di un anno dall’inizio della rivoluzione siriana, la stabilità che aveva trovato con la sua famiglia a est della città di Aleppo, nel nord della Siria, sarebbe diventata impossibile in pochi mesi.
Osama al-Hindi, 31 anni, di Deir Hafer, città nel nord della Siria, aveva lavorato come meccanico in Libano per dieci anni, prima di tornare nella sua città nel febbraio 2012. A quel tempo la situazione era ancora stabile in Siria.
“In Libano non stavo male, ero il manager di uno dei più noti centri di manutenzione delle auto di Beirut, ma decisi di tornare con la mia famiglia per vivere nella mia città e con i miei parenti”, racconta Osama di quel periodo.
“Le proteste contro il regime siriano erano diffuse in diverse città siriane, ma la situazione ad Aleppo e nelle sue campagne era abbastanza stabile, nessuno di noi si aspettava la drammatica evoluzione del conflitto.
Nel marzo 2012, dopo una serie di manifestazioni di protesta da parte delle famiglie di Deir Hafer, le forze del regime furono costrette a ritirarsi dalla città e da altri centri abitati vicine nella campagna orientale di Aleppo.
Le tribù della regione formarono comitati per governare la città e la sua periferia, fino a quando, il 18 luglio 2012, nel nord della Siria si costituì la Brigata Tawhid, affiliata all’Esercito siriano libero, che estese il suo controllo sulla campagna settentrionale e orientale di Aleppo.
Le forze del regime siriano occuparono l’aeroporto militare di Quiris, ma anche questo fu successivamente conquistato dall’Esercito siriano libero, che così prese il dominio sull’intera area.
“All’inizio la gente era felice della presenza dell’Esercito libero, il comandante della Brigata Tawhid, Abdul al-Qader Saleh, era noto per la sua giustizia e integrità, ma i suoi ufficiali e il modo in cui sfruttarono quella situazione peggiorarono le cose”, dice Osama.
“Aumentarono i casi di furto, rapimento e richieste di riscatto. Mentre l’attenzione di al-Qader Saleh era rivolta al mantenimento dell’assedio sull’aeroporto di Quiris, un certo numero di leader e membri dell’Esercito libero ne approfittarono per fare ciò che volevano. Nel frattempo tempo il Fronte islamico si era formato e cresceva in silenzio, portando a sé un certo numero di elementi e contribuendo alla formazione dell’Isis”.
Dopo l’annuncio della formazione del sedicente Stato Islamico nell’aprile 2013, tra l’Isis e l’Esercito siriano libero scoppiò uno scontro che portò al ritiro dell’Esercito libero nella città di Azaz, nel nord della Siria, mentre nel gennaio 2014 Isis assunse il controllo delle aree di Manbij, Al Bab, Maskane e Deir Hafer .
Racconta Osama: “All’inizio la popolazione non era contro l’Isis a causa delle azioni intraprese dagli elementi dell’Esercito libero, come furti, saccheggi, rapimenti. In quella prima fase gli uomini dell’Isis trattavano bene le persone. Poi imposero la loro legislazione, con forti restrizioni: l’hijab diventò obbligatorio per tutte le donne e le ragazze, il fumo fu bandito, venne introdotta la zakat (obbligo di “purificazione” dalla ricchezza prescritto dal Corano, ndr) e tutti furono costretti a seguire corsi obbligatori islamici, mentre i cristiani dovettero lasciare la città”.
Nel marzo 2014 Osama stava guidando la sua auto a Manbij, quando fu fermato da un pick-up con a bordo uomini dell’Isis. Gli fu chiesto di scendere dal mezzo e di spegnere il motore e fu portato nel centro investigativo della città, dove gli fu spiegato che un’auto dello stesso modello e dello stesso colore della sua aveva sparato a una pattuglia ed era fuggita: il sospetto era che la macchina fosse proprio la sua.
L’inchiesta proseguì per tre giorni, durante i quali Osama rimase in prigione.
“Le stesse domande mi venivano ripetute ogni giorno: ‘Dove sono i tuoi fratelli e la tua famiglia?’, ‘perché hanno lasciato l’area?’, ‘comunicate con loro?’, ‘perché non ti sei unito ai ranghi dell’Isis?'”, racconta Osama.
“Nel mio telefono sfortunatamente trovarono delle immagini contenenti espressioni religiose sciite. Il telefono era un regalo di mio fratello, che me lo aveva mandato dal Libano, dove lavorava. C’erano foto dalla sua zona di Beirut, un’area prevalentemente sciita, e non avevo pensato di cancellarle. Quelle immagini mi condannarono più che se la mia macchina fosse stata davvero l’auto che li aveva attaccati”.
“Lo sciita per l’Isis è un nemico che va ucciso”, prosegue Osama. “Sebbene non lo fossi, venni accusato di lavorare per il regime siriano, di spionaggio, e fui rinchiuso in carcere per altri tre giorni. Eravamo più di venti prigionieri in una cella. Ero circondato da dieci membri di al-Nusra detenuti in cambio di prigionieri dell’Isis. Un uomo era dentro perché accusato di fumare, un altro per non aver pregato. Il capo del carcere era un saudita conosciuto come Abu Hashim al-Jazrawi”.
Dopo due giorni di detenzione, Osama fu mandato davanti al giudice e, dopo un’udienza durata più di un’ora e mezza, il giudice lo condannò a 100 frustate e dispose la confisca della sua auto e del suo telefono. La sentenza fu eseguita subito.
“Fui spogliato dei miei vestiti e il boia cominciò a flagellarmi. Ricordo molto bene il dolore che sentii per le prime venti frustate, poi persi rapidamente la sensibilità. Mi sentivo intorpidito dal dolore. Eppure ero felice, perché mi aspettavo di essere condannato a morte”, ricorda.
Dopo essere uscito di prigione, Osama riprese la sua attività lavorativa, ma i guadagni iniziarono a diminuire a causa delle alte tasse.
L’Isis aumentò le imposte a lui a e a tutti quelli che non aderivano all’organizzazione. Inoltre, il sedicente Stato Islamico cercava di terrorizzare la popolazione tramite processi pubblici ed esecuzioni nelle piazze.
“Ricordo molto bene quando tagliarono la testa di un giovane curdo di Kobane e la appesero nel centro della città”, dice Osama. “Era la a metà del 2014: il crimine di quel ragazzo era solo quello di essere un curdo. Da quel giorno si diffuse la paura. Ci obbligavano a tenere la barba la lunga contro la nostra volontà”.
Il secondo arresto risale al 30 luglio 2015, dopo che Osama aveva comprato due pacchetti di sigarette da uno dei commercianti che vendevano fumo clandestinamente.
Mentre i due erano seduti di notte nella sua casa, due pick-up Mitsubishi si fermarono davanti all’abitazione e fecero irruzione, arrestando Osama.
“Fu una notte che non posso dimenticare”, spiega Osama. “I combattenti fecero irruzione mentre mia moglie e le mie figlie dormivano. Provai a fermarli e mi scontrai con uno di loro, un altro mi colpì con un fucile in testa, poi mi legarono e mi portarono al quartier generale della polizia islamica”.
“Fui rinchiuso in una cella di 4 metri per 4 con dentro 17 persone”, prosegue. “Dopo meno di un’ora mi legarono e bendarono e mi obbligarono ad ascoltare le urla delle torture dalle stanze vicine”.
“Poi sentii una voce che mi diceva: ‘Benvenuto spia’. Conoscevo bene quella voce: era quella di un uomo del mio quartiere, il suo nome era Sakr Shehadeh e proveniva da una famiglia nota per la sua lealtà verso i Fratelli Musulmani. Non mi sarei mai aspettato che lui fosse lì. E in pochi istanti cominciò la peggior notte della mia vita”.
“La tortura brutale ebbe inizio con diversi strumenti e mezzi”, racconta Osama.
“Mi colpirono con bastoni elettrici. Le percosse e le torture proseguirono per circa due ore, finché non svenni. Quando mi svegliai non sapevo da quanto tempo ero nella cella. Intanto uno dei prigionieri mi stava lavando la faccia con acqua e mi stava pulendo il sangue”.
Osama rimase altri cinque giorni in quella prigione in pessime condizioni. In seguito fu trasferito in una ex scuola elementare a nord di Deir Hafer, trasformata in un centro di detenzione e tortura.
“La prima cosa che mi colpì fu il gran numero di stranieri: egiziani, sauditi, iracheni e tunisini”, ricorda. “Il responsabile della prigione era un egiziano di nome Abu Khadija al-Masri, ma i suoi stretti collaboratori erano sauditi che si facevano chiamare Shams e Qamar”.
“Fui portato in una cella con più di venti prigionieri, sembrava l’inferno. Il cibo veniva servito una volta al giorno: non più di un pezzo di pane e qualche pezzo di olive marce. Le urla delle torture erano incensanti giorno e notte, come i bombardamenti e il passaggio gli aerei”.
“La scuola fu presa di mira due volte mentre ero lì, la seconda volta i missili colpirono una cella accanto a noi: il muro fu distrutto e un certo numero di prigionieri rimasero feriti”, racconta Osama.
“Due giorni dopo il mio arrivo, iniziò per me un altro ciclo di torture. La mia mano fu appesa al muro e vi restò per 12 ore. Ricordo che successivamente rimasi 21 giorni senza poterla muovere: uno dei prigionieri mi aiutava persino ad andare in bagno e ripulirmi. Le mie dita erano completamente intorpidite e non riuscivo a controllare il mio corpo”.
Osama non aveva avuto alcun processo e non sapeva cosa aspettarsi. Nessuno dei detenuti conosceva il proprio destino.
Un giorno, alla fine dell’aprile 2016, i carcerieri svegliarono tutti i prigionieri alle 5 del mattino. Il capo della prigione, Abu Khadija al-Masri, e il giudice Abu Muhammad Abu Ali ordinarono di leggere una comunicazione a tutti i prigionieri.
“La Corte islamica nello stato di Aleppo ha deciso di condannare a morte otto prigionieri con l’accusa di tradimento e infedeltà”.
Poi furono resi noti i nomi: erano tutti di giovani tra 18 e 21 anni che avevano cercato di uscire dalla città per completare i loro studi universitari all’Università di Aleppo. I membri dell’organizzazione li avevano arrestati prima che potessero scappare.
“Studiare nelle università del regime siriano era un delitto per l’Isis. Nessuna conoscenza diversa dalla religione dell’Islam era riconosciuta”, spiega Osama.
Il giorno seguente, dopo le preghiere del venerdì, gli otto furono portati via e Osama rimase con 15 prigionieri nel dormitorio.
Un paio di giorni dopo Osama fu condannato a due mesi di carcere. Il 14 maggio fu rilasciato insieme a un certo numero di prigionieri che non avevano scontato per intero le loro pene, dopo che il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, aveva concesso un’amnistia generale in occasione dell’inizio del Ramadan.
“Le strade della città erano quasi vuote ed era la prima volta che vedevo il sole per molti mesi”, racconta Osama. “Andai verso il centro e, quando arrivai, vidi qualcosa di orribile: i corpi dei otto miei amici, giustiziati, erano appesi nella piazza, i giovani che avevano partecipato alle dimostrazioni studentesche ad Aleppo contro il regime siriano per anni erano stati giustiziati con l’accusa di essere spie del regime. È stato davvero duro”.
“Il mio ritorno a casa fu una sorpresa per i miei genitori e la mia famiglia: tutti pensavano che fossi morto, non sapevano nulla di me da mesi. Da quel giorno, iniziai a pianificare di scappare con la mia famiglia fuori città”, racconta.
“Riuscii a far scappare i miei fratelli, i miei genitori e mia madre pagando alcuni contrabbandieri. Rimasi con mia moglie e i miei figli aspettando l’occasione giusta per scappare”.
L’Isis avviò la politica di confisca della proprietà del popolo. Questo costrinse Osama a vendere tutte le auto della sua officina e a tenerne solo una.
Il 5 giugno 2016 alcuni membri dell’Isis scrissero sul muro della casa di Osama: ‘Questa casa è di proprietà dello Stato Islamico in Iraq e in Siria’.
“Sentivo che la mia vita e quella della mia famiglia era a rischio. Dissi a mia moglie di preparare le valigie per il viaggio e contattai un contrabbandiere per aiutarci ad uscire dalla città”, racconta Osama.
“Concordata la somma di denaro con il contrabbandiere, iniziammo il viaggio verso Azaz, che era sotto il controllo dell’Esercito siriano libero. La distanza era di 4 chilometri, durante i quali fummo continuamente presi di mira dai cecchini dell’Isis, che colpirono uno specchietto dell’automobile, fortunatamente senza causare feriti”.
“Lasciai tutto dietro di me: la mia casa, la mia terra, il mio lavoro. Portai solo alcuni vestiti per i miei bambini”.
Tre giorni dopo il suo arrivo ad Azaz, Osama, pagando un altro contrabbandiere, riuscì a mandare la moglie e i figli a Damasco.
“La mia priorità era garantire la sicurezza della mia famiglia: cercai di portarli fuori dal Paese, verso il Libano”, spiega. “Mia moglie e i bambini furono fermati al confine da agenti siriani a causa dei farmaci usati da tre dei miei figli che soffrono di talassemia. Era vietato prendere questo tipo di medicinali senza una ricetta. Dopo due giorni gli agenti si resero conto che i bambini erano malati e consentirono alla mia famiglia di attraversare il confine libanese”.
L’uscita di Osama dal Paese era più difficile. Fu costretto a rimanere per due mesi e mezzo nelle aree sotto il controllo dell’Esercito libero, prima di poter entrare nella città di Qamishli, sotto il controllo dei curdi, pagando circa 500 euro una persona kurda per accettare di essere garante.
Altri 500 euro furono, due mesi più tardi, il prezzo per entrare nell’aeroporto di Qamishli senza passare attraverso il checkpoint del regime siriano.
Alla fine, il 21 dicembre 2016, Osama riuscì a imbarcarsi dall’aeroporto di Qamishli su un volo diretto a Beirut, dove un vecchio amico libanese che lavorava come avvocato lo stava aspettando e lo aiutò a ottenere un visto per entrare legalmente nel territorio libanese e incontrare di nuovo la sua famiglia.
In Libano Osama riprese il suo lavoro come meccanico nella stessa azienda era stato manager anni prima.
Tuttavia, il costo della vita e la malattia dei suoi figli lo spinsero a decidere di intraprendere un nuovo viaggio.
Fatima, 12 anni, Mays, 11, e Ammar, 4, soffrono di talassemia: il costo del trattamento in Libano era di circa 800 dollari al mese.
Il medico che li curava fu in grado di comunicare con il progetto dei corridoi umanitari a Beirut: in poche settimane, Osama ricevette un visto italiano per lui e la sua famiglia.
“Speravo di rimanere in Libano, nella speranza di tornare un giorno in Siria, ma sembra chiaro che le cose là vanno male, soprattutto dopo che il regime ha ripreso il controllo della mia città e dei suoi dintorni e ha confiscato molte case e terreni”, osserva Osama.
“Oggi non vedo un futuro chiaro per me in Italia, ma è certo che i miei figli vivranno una vita migliore qui. La situazione era difficile all’inizio, non abbiamo trovato sufficiente attenzione. I nostri documenti legali sono stati ritardati e alla fine mi sono dovuto muovere da solo senza alcun aiuto”, racconta.
Ma la cosa positiva è che i miei figli hanno iniziato le cure e oggi stanno molto meglio: si stanno preparando a effettuare un trapianto di tessuto osseo nella speranza di avere una vita normale, sconfiggendo la malattia una volta per tutte”.
Hanin, Fatima, Mays, Mohammad e Ammar. Cinque bambini hanno sofferto e visto molto per la loro età, in questi anni.
Oggi i figli di Osama studiano in Italia, dove la famiglia vive a Mestre Venezia.
Qualche giorno fa ho avuto l’opportunità di vederli a Padova, dove hanno ricevuto le cure presso l’Ospedale universitario. Quando ho chiesto a Mays ‘ti manca la Siria?’, lei ha risposto senza esitazione: ‘Non voglio più avere paura’.