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Home » Cronaca

La storia dell’assassinio di Gianni Versace, un caso risolto troppo in fretta

Immagine di copertina

Il 15 luglio 1997 Gianni Versace veniva trovato morto nella sua villa di Miami Beach. Molte circostanze legate al delitto sono rimaste per anni avvolte nel mistero, anche a causa della rapidità con cui il caso venne archiviato

Il 19 gennaio 2018 era uscita la seconda stagione della serie televisiva American Crime Story, intitolata L’assassinio di Gianni Versace. (Qui la storia di Versace, la maison che ha segnato la storia della moda)

La serie, una delle più attese del 2018, ricostruisce le vicende che ruotano attorno alla morte dello stilista italiano Gianni Versace, ucciso a Miami il 15 luglio 1997, all’età di 50 anni.

La famiglia Versace ha in parte criticato la serie, lamentando un mancato coinvolgimento nella stesura della sceneggiatura e nella definizione delle vicende biografiche dei vari personaggi, e definendola un’opera “di mera finzione”.

Il cast diretto da Ryan Murphy è di primissimo livello, e comprende tra gli altri Penelope Cruz nel ruolo di Donatella Versace, sorella di Gianni, e Ricky Martin nei panni di Antonio D’Amico, il compagno dello stilista italiano.

La complessità di una narrazione televisiva dedicata a questo omicidio è il riflesso di una vicenda di per sé mai del tutto chiarita. L’assassino fu, senza ombra di dubbio, Andrew Cunanan, un gigolò tossicodipendente che freddò Versace nella villa dello stilista a Miami.

Ben più difficile è invece capire cosa spinse Cunanan a compiere l’omicidio. Per anni si sono rincorse ipotesi di ogni tipo, che hanno trasformato il caso in uno dei grandi misteri della storia italiana.

Chi era dunque Cunanan, e perché uccise Versace?

Il mondo sordido di questo gigolò californiano era la copia rovesciata di quello, dorato, dello stilista italiano. Un filo invisibile ha legato per anni il talento visionario del secondo e le ossessioni del primo.

Da una parte l’estro, la genialità messa al servizio di una sana ambizione, quell’abbraccio virtuoso tra istinto e ragione che ha permesso a Gianni Versace di scalare le vette della moda internazionale.

Partito come ragazzino di bottega nella sartoria della madre, Versace capisce subito di avere doti non comuni. Poco più che ventenne, dalla Calabria si trasferisce a Milano, dove disegna abiti e collabora con alcune case di moda. Nel 1978 si mette definitivamente in proprio, dando vita a quel brand che, ancora oggi, è uno dei simboli dell’estetica made in Italy.

Studia, sperimenta, si lascia ispirare dalla realtà che lo circonda, dà forma compiuta alle sue intuizioni. Sa cogliere le occasioni frequentando gli ambienti giusti, ma unisce a questo l’operosità, la fatica della creazione, la sua cultura del bello intesa tanto nella dimensione estetica quanto in quella morale.

A migliaia di chilometri di distanza, dall’altra parte dell’oceano, c’è invece Andrew Cunanan, un ragazzo di bell’aspetto, anche lui colto e dotato, vorace lettore, che del talento e dell’istinto conosce però solo l’eccesso.

Non sa domare le sue pulsioni, ha un’ambizione sfrenata che lo porta ad abbandonare gli studi per diventare un gigolò d’alto bordo, mantenuto da ricchi affaristi omosessuali in cambio di prestazioni erotiche.

Fatte le dovute proporzioni, si può dire che se Versace ha il senso estetico di un Oscar Wilde, Cunanan assomiglia più ad Alfred Douglas, l’amante dissoluto e fatuo del poeta irlandese.

Vive sulle spalle degli altri grazie al suo fascino magnetico, si trasforma giorno dopo giorno in un istrione tronfio e vacuo, ossessionato dal lusso a dall’apparenza fini a se stessi.

Un vortice tormentoso che lo condurrà presto oltre la soglia della tossicodipendenza e della psicosi. Nel maggio 1997 Cunanan, smarrito il fascino di un tempo, abbandonato dai suoi vecchi protettori, intravede nel crimine l’unica strade per ritrovare l’ebbrezza perduta.

Diventa così in tre mesi giustiziere degli altri e di se stesso, del suo passato e di tutte le sconfitte seminate nel corso dell’esistenza.

Dà il via a una raccapricciante serie di cinque omicidi, un tour dell’orrore che comincia nel Minnesota con l’assassinio di Jeffrey Trail, suo vecchio amico e amante, massacrato a colpi di martello.

Nella stessa abitazione, pochi giorni dopo, fulmina con una pistola David Madson, altro suo grande e tormentato amore. Cunanan si sposta poi a Chicago, dove regola i conti con il 75 enne magnate Lee Miglin, che gli investigatori riterranno poi essere un suo vecchio protettore, anche se la circostanza non verrà mai completamente chiarita.

Ormai principale ricercato del paese, con una taglia da 10 mila dollari pendente sulla testa, Cunanan si mette in fuga e, nel tentativo di rubare un furgone, uccide il guardiano di un cimitero militare.

Chiude il cerchio del suo delirio strappando Gianni Versace ai suoi affetti, ai suoi progetti, a tutto quello che ancora aveva di incompiuto. Lo fredda con due colpi di pistola alla testa davanti al cancello d’ingresso della villa di Miami Beach acquistata dallo stilista qualche anno prima.

Sull’identità dell’assassino di Versace non ci furono mai particolari dubbi, anche perché Antonio D’Amico, ex modello e compagno dello stilista, udì il colpo di pistola e riconobbe Cunanan mentre si allontanava dalla villa.

Come detto, ben più complesso è invece il movente: quello di Versace fu infatti l’unico dei cinque omicidi privo di una connessione chiara e diretta tra vittima e carnefice.

Si riuscì a risalire ad un incontro tra Cunanan e lo stilista in un locale gay nel 1990, sette anni prima del delitto. Un incrocio di sguardi, qualche parola, niente di più. Quel che è certo è che Cunanan, nei giorni che precedettero l’assassinio, risiedeva in un hotel di Miami Beach, ed è quindi molto probabile che stesse pianificando il suo gesto.

Il ragazzo californiano, pochi giorni dopo aver ucciso Versace, venne poi ritrovato senza vita nella casa galleggiante di un faccendiere tedesco, imprenditore nel settore della pornografia, a pochi passi dalla villa di Miami Beach teatro del suo ultimo barbaro assassinio.

La polizia lo considerò subito un suicidio, e il corpo venne cremato senza effettuare l’autopsia, così come era accaduto alla salma di Versace poco prima. Circostanze che, come si può intuire, hanno alimentato negli anni numerosi dubbi e piste alternative sulle cause che portarono alla morte dello stilista.

Al gesto isolato di uno psicopatico non ha mai creduto, tra gli altri, proprio l’ex compagno di Versace Antonio D’Amico, che 15 anni dopo si disse convinto dell’esistenza di una regia occulta dietro al delitto.

“Il caso è stato chiuso troppo in fretta – disse D’Amico in un’intervista al settimanale Gente – Gli americani volevano togliersi la patata bollente e la famiglia ha accettato la loro versione. Fosse stato per me, sarei andato avanti. Ma io, per la legge, non ero nessuno”.

L’ipotesi che l’omicidio potesse essere stato commissionato da qualcuno prese piede già due anni prima delle dichiarazioni di D’Amico, quando i giornalisti Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, nel libro-inchiesta Metastasi, raccolsero le rivelazioni di Giuseppe Di Bella, pentito della ‘ndrangheta.

Secondo Di Bella esistevano rapporti molto stretti tra la famiglia Versace e la criminalità calabrese. La ‘ndrangheta, a sentire il pentito, riforniva di droga lo stilista, e nel tempo aveva conquistato una vera e propria posizione di controllo sulle sue attività economiche.

Sulla base degli elementi che sono a mia conoscenza – disse Di Bella – posso immaginare che Gianni Versace sia stato ucciso per un problema di debiti”. Le cosche calabresi si sarebbero insomma mosse fino a Miami Beach per un regolamento di conti, utilizzando Cunanan per poi magari ucciderlo e mettere per sempre a tacere la faccenda.

La famiglia Versace reagì con indignazione a queste dichiarazioni, definite “false e vergognose”.

I dubbi però non si sono mai dissipati del tutto, soprattutto quelli riguardanti il comportamento della polizia di Miami. Perché tutta questa fretta nella cremazione dei cadaveri? Qualcuno sostenne addirittura che Cunanan fosse stato ucciso dai poliziotti, che l’avrebbero poi trasportato nella house-boat simulando un suicidio, per evitare che svelasse le vere ragioni del suo gesto contro Versace.

Sterili complottismi? Non secondo il produttore televisivo Chico Forti, che commissionò ad un investigatore privato ulteriori indagini sul delitto. Ne uscì fuori un documentario intitolato “Il sorriso della Medusa”, trasmesso anche in Italia, in cui veniva messo pesantemente in dubbio l’operato della polizia di Miami, suggerendo come il cadavere di Cunanan fosse stato trasportato nella house-boat del ritrovamento per simulare un suicidio.

La si potrebbe derubricare a fantasia da detective fai-da-te, se non fosse che un anno dopo Chico Forti venne condannato all’ergastolo, dopo un processo rapido e sommario, per l’omicidio di Dale Pike, il figlio di un faccendiere che in quel periodo stava vendendo un hotel a Ibiza proprio a Forti.

Le indagini vennero condotte dalla polizia di Miami, la stessa messa sul banco d’accusa dall’imprenditore italiano per il delitto Versace.

La tesi finale fu che Dale Pike era stato ucciso da Forti perché si opponeva alla vendita dell’hotel, ma le modalità dell’assassinio rimasero piuttosto nebulose, e la condanna venne inflitta sulla base di prove fragili e, secondo alcuni commentatori, costruite ad arte.

Un mistero nel mistero, che ha contribuito ad alimentare ulteriori sospetti su un caso quanto mai controverso. Resta difficile valutare l’attendibilità di queste piste alternative, capire se la tesi del gesto isolato di uno squilibrato non sia stata in realtà uno mero stratagemma per liquidare rapidamente la faccenda, coprendo segreti inconfessabili.

Forse quella di Cunanan era soltanto invidia sociale, risentimento nei confronti di un’icona che in punta di piedi aveva sbancato in quel mondo di lusso e glamour che il ragazzo californiano bramava così ardentemente.

Un mondo che per Versace rappresentava il palcoscenico dove poter esprimere la propria creatività, mentre per Andrew Cunanan altro non era che un’eterna fiera della vanità, quella che nel microcosmo della sua sfera privata aveva prima costruito e poi visto sgretolarsi.

Un atroce gioco di specchi, quello tra lo stilista e il gigolò d’alto bordo, terminato con entrambi i cadaveri riversi a poche centinaia di metri di distanza, sulla riva della baia di Miami, dove oltre alle onde si sono infranti anche la maturità artistica di un’esteta gentile e le folli ossessioni di un dandy senza cuore.

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