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Home » Esteri

Com’è cambiata la vita delle donne saudite ora che possono guidare? Parla Michela Fontana, scrittrice che ha vissuto in Arabia Saudita

Immagine di copertina
Michela Fontana, giornalista e saggista

Michela Fontana è autrice di "Nonostante il velo", un libro che raccoglie decine di interviste a donne saudite. TPI l'ha intervistata

“Guideremo quando il re ci permetterà di farlo. Non ce la possiamo fare da sole”. Donne Arabia Saudita Michela Fontana

Quando Michela Fontana ha sentito pronunciare queste parola da una donna e scrittrice saudita di nome Munira, ha pensato che fosse “una risposta realista” da parte di una persona che sa di vivere in un paese in cui “il potere è nelle mani degli uomini”.

Alcuni anni dopo, le parole di Munira sono diventate realtà. Dal 24 giugno scorso le donne in Arabia Saudita possono guidare. Possono farlo perché è stato il re – o meglio, il principe ereditario Mohammad bin Salman – a concedere loro questo diritto.

Eppure le proteste per il diritto alla guida in Arabia Saudita ci sono state, le prime manifestazioni risalgono addirittura al 1990. Come mai allora la svolta è arrivata proprio adesso?

TPI.it ne ha parlato con Michela Fontana, giornalista e saggista milanese autrice di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita.

Michela Fontana ha vissuto a Riad da luglio 2010 a dicembre 2012. In questo periodo ha incontrato e intervistato decine di donne saudite. Ha vissuto nelle loro città, è entrata nelle loro case, ha incontrato le loro madri o i loro fratelli, ha mangiato con loro, è stata ai loro matrimoni.

In questo modo ha potuto raccontare l’universo femminile dell’Arabia Saudita “dall’interno”: un’esperienza unica, se si considera che il paese è praticamente inaccessibile agli stranieri.

Unico è anche il racconto che l’autrice lascia fare alle donne stesse, senza giudizi o preconcetti, offrendo loro lo spazio per resentarsi con la loro stessa voce.

Attiviste e conservatrici, madri e lavoratrici, giovani e anziane, docenti universitarie e giornaliste: ci sono tutte queste voci nel resoconto che Michela Fontana ha pubblicato in edizione digitale a marzo 2015, e arrivato nelle librerie a maggio 2018 grazie a una collaborazione tra VandA.ePublishing e Morellini editore.

Dal 24 giugno le donne in Arabia Saudita possono guidare. Ma si tratta di una concessione del sovrano più che di una conquista frutto delle lotte delle donne. Possiamo definirla una vittoria a metà?

Sì, assolutamente. È senza dubbio un passo avanti, ma allo stesso tempo è una concessione del re, come se lui fosse il “grande guardiano” delle donne saudite.

Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.

Non dimentichiamoci che alcune delle donne che hanno lottato pacificamente per avere il diritto di guidare sono state arrestate proprio un mese prima che le donne saudite si mettessero al volante.

Questo mostra che il principe Mohammad bin Salman (figlio del re saudita Salman ed erede al trono, sovrano de facto del paese, ndr) è benevolente da un lato, ma ha anche il pugno di ferro.

Ha voluto mandare un segnale alle donne: vi concedo quello che vi voglio concedere, che nessuna se ne prenda la paternità.

Queste donne ora si trovano in prigione senza avvocato, senza processo e senza la possibilità di comunicare con la famiglia.

Detto ciò, il diritto di guidare è comunque una vittoria, perché ci sono delle aperture.

In Arabia Saudita continuano comunque ad essere negati molti diritti alle donne. Uno dei punti cruciali è la figura del guardiano (generalmente il padre o il marito). Il diritto di guidare cambierà la quotidianità delle saudite? Se sì, come?

Potranno prendere la patente e, per esempio, andare a vedere una partita di calcio o al cinematografo col padre o col marito.

Non è stato ancora chiarito ufficialmente se la donna può mettersi al volante da sola o deve avere accanto a sé un parente maschio che l’accompagni.

Ma se il guardiano di una donna decide che lei non può guidare o non può uscire di casa – neanche a piedi – può farlo.

Quando negli anni Sessanta le bambine hanno avuto il permesso di frequentare la scuola, all’inizio molte famiglie erano contrarie.

Negli anni, a poco a poco, la società si è evoluta e sempre più famiglie hanno mandato le figlie a scuola.

Oggi mandare è una cosa del tutto normale in Arabia Saudita.

Può darsi che anche con la guida sarà così. All’inizio soltanto poche avranno il permesso di guidare, ma lentamente tutti lasceranno che le figlie si mettano alla guida.

Che ruolo ha il guardiano nella vita di una donna saudita?

Il guardiano mantiene ancora il potere assoluto sulla vita di una donna che, ad esempio, non può viaggiare senza la sua autorizzazione.

Ora però sembra che ci siano alcuni campi in cui le donne possono agire senza l’autorizzazione del guardiano.

Ho letto che possono, ad esempio, aprire una piccola impresa senza l’autorizzazione del guardiano, ma bisogna vedere se questa regola viene applicata.

Possono anche accedere a determinati lavori o entrare in ospedale senza l’autorizzazione del guardiano, ma solo in alcuni casi.

Il diritto di guidare è sicuramente un passo avanti, ma non vuol dire che ora le donne saudite siano libere o siano considerate al pari degli uomini.

L’Arabia Saudita è uno stato basato sulla disparità di genere. Ancora oggi, le saudite sono considerate cittadine di serie B.

Come emerge dalle tue interviste, molte donne vedono il guardiano come una figura di protezione e sono contrarie alla sua abolizione, nonostante questo possa limitare la loro libertà. Come si innesca questo meccanismo?

L’Arabia Saudita è molto intrisa di cultura tribale e in tutta la tradizione dei paesi arabi la donna è sottomessa all’uomo. Ma mentre è sottomessa la donna è anche protetta.

Nella tradizione locale la donna è il bene prezioso della famiglia e della tribù, è quella che dovrà partorire i figli – possibilmente figli maschi – e deve essere protetta.

Per esempio, per la legge islamica il marito deve mantenere completamente la moglie. Anche se lei lavora, può non spendere un centesimo per la famiglia, perché è il marito che deve provvedere a lei.

Mi è capitato che alcune donne saudite mi chiedessero: “Ma voi come fate? Voi siete abbandonate. Voi pagate le cene se andate al ristorante, se lavorate dovete dare i soldi alla famiglia. Voi non siete protette”.

Delle giovani ragazze mi hanno detto: “Ma il mio papà con me è buono, mi garantisce tutto quello che ho, sono contenta”.

Diciamocelo, la libertà è un valore in cui noi crediamo, ma una persona libera è anche meno protetta. Costa fatica rinunciare a questa protezione, ma non dimentichiamoci che colui che protegge può diventare anche un feroce carceriere.

È un’assenza di parità di diritti ma anche di doveri quindi. Pensi che si arriverà all’abolizione della figura del guardiano?

Può anche darsi. Ma sarà un processo molto lento e dovrà passare per movimenti sociali significativi.

È difficile prevedere come queste culture possano evolvere in tal senso, però altri paesi di culture diverse, incluso il nostro, hanno cambiato il modo di considerare le donne.

Può darsi che ci riescano anche i paesi arabi e l’Arabia Saudita, che tra tutti esprime queste leggi di segregazione delle donne in modo più estremo.

Dalle tue interviste emergono due linee di pensiero da parte delle donne che auspicano le riforme. Ci sono quelle pronte a lottare per dare una scossa alla società e quelle che vogliono un cambiamento graduale. Chi di loro ha ragione?

In ogni società c’è chi ha lo spirito dell’attivista e chi invece attende la riforma graduale.

Le suffragette si sono fatte anche mettere in prigione e sono anche morte per la lotta, delle cui conquiste hanno goduto le altre.

Nessuno può chiedere alle donne saudite di rischiare la prigione e rinunciare a tutto ciò che hanno per avere un diritto.

In Arabia Saudita le donne che hanno lottato sono finite in prigione o hanno dovuto lasciare il paese.

Se si vuole vivere tranquillamente nel paese, è chiaro che conviene di più aspettare riforme graduali. Chi vuole accelerare, deve essere disposto a pagare conseguenze terribili. Ma io non posso dire chi ha ragione.

Però se il primo diritto concesso è stato quello di guidare, forse è proprio per le proteste delle donne che si sono messe alla guida e hanno attirato l’attenzione a livello internazionale sulla questione.

Probabilmente questo è dovuto più al fatto che adesso l’Arabia Saudita vuole dare un’immagine di modernizzazione al mondo e, in particolare, agli Stati Uniti, con cui ha un ottimo rapporto da quando c’è Trump alla Casa Bianca.

Spesso le autorità saudite, anche mentre io vivevo nel paese, dicevano che più le donne avrebbero manifestato e meno diritti avrebbero ottenuto.

Per le autorità saudite non c’è nulla di più terribile che vedere sui media stranieri un’accusa sul modo in cui trattano i loro sudditi.

Infatti una delle accuse che hanno rivolto alle donne che hanno incarcerato adesso è di aver parlato con i media stranieri. Quindi non me la sento di dire che il diritto di guidare sia arrivato anche grazie alle lotte. Certamente queste hanno dato visibilità e hanno fatto sì che se ne parlasse all’estero.

La guida ha un valore simbolico molto forte e hanno cominciato da quella, anche perché l’Arabia Saudita era l’unico paese al mondo in cui le donne non potevano guidare.

Quindi Mohammed bin Salman ha voluto avviare questa stagione di riforme per una ragione di convenienza politica?

Direi di sì. Prima della rivoluzione del 1979 in Iran c’erano stati anche momenti in cui l’Arabia Saudita aveva cominciato ad aprirsi. Poi c’è stata una regressione.

Può anche darsi che il principe creda genuinamente in una società più aperta, però c’è anche la volontà di sedersi al tavolo con le potenze Occidentali, e non lo si può fare senza che le donne guidino.

Poi ci sono anche spinte economiche. Il governo saudita vuole che alla lunga l’Arabia Saudita non sia più dipendente dal petrolio. Vuole che uomini e donne lavorino. E se vuoi farle lavorare devi farle guidare.

Un’altra spina nel fianco delle donne saudite sono i mutaween, la polizia religiosa che a volte si accanisce con loro, come racconti nel tuo libro.

Una delle innovazioni che è stata fatta da Mohammad bin Salman limita il potere dei mutaween, che ora non possono più arrestare persone ma devono sempre passare attraverso la polizia.

Bisognerebbe verificare se questa riforma è stata attuata. Si tratta di un modo per togliere un po’ di potere alla classe religiosa. Anche questo è un passo avanti oggettivo.

Come ha recepito la classe religiosa l’annuncio della stagione di riforme?

La storia dell’Arabia Saudita è proprio un tiro alla fune tra la casa regnante dei Saud e i religiosi.

Quando il re impone delle riforme, i religiosi non saranno contenti ma devono accetttarlo.

Questo è successo anche quando il re Faisal negli anni Sessanta concesse alle bambine di andare a scuola come i bambini, in scuole femminili ovviamente. Anche in quel caso i religiosi si opponevano, ma poi hanno accettato la questione.

A meno che non ci siano rivoluzioni islamiche, è casa Saud che ha il vero potere.

Le riforme sono state affiancate anche da una feroce repressione che in alcuni casi ha colpito anche membri della famiglia reale saudita.

Più che una feroce repressione, il fatto di aver incarcerato molti principi, accusandoli di corruzione, è stato un segno fortissimo che Mohammad bin Salman vuole avere saldo il potere nelle sue mani.

Non vuole che i principi possiedano troppe ricchezze e vuole far vedere chi ha il potere. Bisogna vedere se riuscirà a mantenere questo polso di ferro senza essere criticato da altri membri della casa reale.

Sotto esame c’è il suo piano Vision 2030, per ridurre la dipendenza del paese dal petrolio, ma anche la guerra che sta conducendo in Yemen, che è costata moltissimi soldi e finora non ha portato ai risultati sperati.

Con le tue interviste hai scavato nella società saudita e nelle dinamiche familiari delle donne saudite. Uno degli aspetti che colpisce di più è quello della violenza domestica, che spesso non viene neanche denunciata. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?

La violenza domestica è diffusa come in tutto il mondo, ma in Arabia Saudita non è perseguita.

Se una donna va dalla polizia a denunciare la violenza del guardiano, gli agenti poi comunque la riportano da lui e, anzi, magari accusano la donna di disobbedienza.

Non penso che la situazione in questi anni sia cambiata molto. So che una riforma adesso consente alle donne di andare dalla polizia senza il guardiano, ma anche qui bisogna vedere se viene applicata.

Se le riforme riusciranno a mettere il dito in questa piaga allora davvero riusciranno a mordere sui fattori contro la libertà e l’emancipazione delle donne.

Ma ricordiamoci che l’Arabia Saudita è una paese chiuso, che non pubblica di certo inchieste giornalistiche o dati sul fenomeno, quindi tutto quello che sappiamo sulla violenza domestica si basa sul passaparola.

Nonostante le riforme annunciate molti attivisti e attiviste saudite restano in carcere. Penso a Raif Badawi ma anche ad attiviste donne. Pensi che la comunità internazionale possa fare di più per chiedere la loro liberazione?

Non penso. Quando il Canada ha preso posizione per chiedere di liberare questi attivisti, l’ambasciatore canadese in Arabia Saudita è stato espulso ed è iniziata un’operazione di boicottaggio del Canada.

Era l’unico paese che aveva preso una posizione ufficiale sui prigionieri sauditi. Sinceramente non credo che l’America di Trump avvierà una battaglia sui diritti civili in Arabia Saudita. Se non lo fanno gli Stati Uniti cosa possono fare gli altri paesi?

Ti sei sentita giudicata dalle donne saudite in quanto occidentale e non musulmana?

Non mi sono sentita giudicata. La stragrande maggioranza delle donne che ho intervistato hanno avuto con me un atteggiamento positivo.

Credo sia stato dovuto al fatto che neanche io le ho mai giudicate, ho sempre cercato di rispettarle come parte di una cultura che non conoscevo. Loro mi hanno ripagato con una bellissima apertura. Ho sentito una comunanza anche femminile, oltre che come persone.

Ma non posso generalizzare. Ci sono intere classi di saudite donne che hanno diffidenza verso gli occidentali, e alcune le ho anche conosciute.

Hanno dei pregiudizi molto forti nei nostri confronti. Pensano che veniamo violentate per strada, che qui da noi c’è la libertà sessuale più sfrenata.

Qual è il tuo ricordo più bello del paese?

Per me tutta l’esperienza di vita in Arabia Saudita è stata bella. Sapevo che sarebbe stato un periodo limitato e poi ero anche una privilegiata: ero un’occidentale e ovviamente mio marito mi lasciava uscire liberamente col mio autista.

Avevo anche circuiti occidentali in cui mi sentivo accettata e conoscenze di sauditi che avevano un atteggiamento di accettazione nei miei confronti.

Naturalmente non andrei mai a vivere in Arabia Saudita. Dopo un po’ che si vive lì, se si prende un aereo e si torna in Europa si sente finalmente di respirare di nuovo.

Svanisce qualsiasi opprimente sensazione di segregazione: vestito nero, velo nero, abiti lunghi fino ai piedi. E non bisogna stare attenti se si entra in un bar maschile o femminile.

Leggi anche: Arabia Saudita, per la prima volta un’attivista donna rischia la pena di morte
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