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Cosa succederà adesso in Catalogna e come siamo arrivati fin qui

Immagine di copertina
Credit: Cesar Manso

Il 1 ottobre 2017 si è tenuto il referendum sull'indipendenza della Catalogna, tra le proteste e le violenze da parte della polizia nazionale

“Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente sotto forma di repubblica?”. Oggi è l’1-O, ovvero l’1 ottobre, il giorno designato dal governo autonomo di Barcellona per il voto sull’indipendenza della Catalogna dalla Spagna.

Come in parte prevedibile, l’irrisolvibile contrapposizione frontale fra il governo centrale spagnolo e la Generalitat catalana, ha creato un limbo istituzionale che ha portato ai primi scontri tra forze di sicurezza nazionali e cittadini, mentre i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, si sono fatti da parte per consentire lo svolgimento della consultazione. La tensione è ai massimi livelli in tutta la comunità autonoma. Ma come si è arrivati a questo punto?

Nel nostro immaginario, la Spagna è un paese europeo moderno, libero, pacifico ed inclusivo che, nonostante alcune contraddizioni, sembrava essersi lasciato alle spalle forti tensioni democratiche e conflitti identitari latenti.

Chi ha viaggiato in Catalogna sa bene che il panorama urbano e rurale è costellato di una densità variabile di Esteladas, le bandiere indipendentiste catalane. Il sentimento anti-spagnolo è sempre stato piuttosto diffuso in quest’angolo nordorientale di penisola Iberica ma, con la sconfitta dell’ETA nei Paesi Baschi e la lenta ripresa dalla crisi economica, la prospettiva di una secessione sembrava nei fatti una lontana eventualità fino a pochi mesi fa.

La risposta alla domanda del titolo non è quindi semplice. L’escalation politica è dovuta a vari fattori e, come in una crisi di coppia, entrambe le parti hanno le loro responsabilità.

Le ragioni storiche dell’indipendentismo catalano

La situazione della Catalogna non può essere paragonata a quelle di Scozia o a Quebec, parti di democrazie storicamente più consolidate e relativamente più ricche, né a questioni puramente economiche e fiscali come quelle rilanciate dalla Lega Nord in Italia negli anni Novanta. È infatti una via di mezzo fondata su un percorso storico molto più accidentato.

Il sentimento indipendentista catalano ha le sue radici storiche nella Guerra di Successione Spagnola, XVIII secolo, quando Barcellona, schieratasi con gli Asburgo, fu posta sotto assedio e conquistata dai Borboni e le istituzioni del Principato di Catalogna furono sostituite da quelle centraliste castigliane. Diversi impeti di indipendentismo catalano continuarono a crescere nei secoli successivi, ma è con la Guerra Civile Spagnola che la Catalogna subì la ferita più grave e che l’insofferenza nei confronti della corona iniziò a toccare livelli più concreti di insubordinazione.

Sotto Francisco Franco, ogni forma di autonomia, a cominciare dall’uso della lingua catalana, fu messa fuori legge. La Catalogna, una delle aree più ricche del paese, divenne il centro della resistenza antifranchista. Con il ritorno alla democrazia e con la promulgazione della Costituzione Spagnola del 1978, Barcellona ottenne un nuovo Statuto di Autonomia. In anni recenti, la bocciatura della riforma dell’Estatut da parte della Corte Costituzionale e il forte squilibrio fiscale rivendicato dai catalani, hanno consentito ai partiti indipendentisti di ottenere la maggioranza alle elezioni regionali del 2015, in seguito ad una campagna elettorale fortemente incentrata sulla necessità di un referendum.

Le responsabilità di Barcellona

Il diritto all’autodeterminazione può quindi difficilmente essere ignorato, quando la grande maggioranza dei cittadini è comunque a favore del voto. Eppure, un referendum sulla secessione di un territorio da uno stato non è assimilabile a un voto normale, ha molte più implicazioni irreversibili e sensibili di carattere identitario, storico e sociale.

Pertanto, spingere unilateralmente per una consultazione formalmente illegale (la legge fondamentale prevede l’indissolubilità dello stato spagnolo), senza quorum, con un esito eccezionalmente significativo per il futuro di tante persone determinato dalla volatilità di una maggioranza semplice circostanziale, è un azzardo in una società profondamente divisa come quella catalana, anche per chi ha il più che legittimo obiettivo politico dell’autodeterminazione.

Il president della comunità autonoma, Carles Puigdemont, forte della maggioranza ottenuta nel parlament, ha forzato la mano durante tutti i due anni al governo e quindi si è arrivati ad oggi, al muro contro muro, senza soluzioni condivise non solo da Madrid, ma anche da quella maggioranza di catalani che, a prescindere dalle loro convinzioni politiche e pur volendo votare, non sono d’accordo nel farlo in una cornice di illegalità costituzionale e quindi senza alcuna rassicurazione o indicazione su cosa succederà dal 2 ottobre. Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che i partiti contrari all’indipendenza, avevano ricevuto la maggioranza relativa dei voti nel 2015.

È chiaro che un referendum indetto su queste basi, e quindi sostanzialmente riconosciuto solo dalla parte indipendentista, falsa di per sé la natura del risultato. E questo può essere traumatico in una società polarizzata, che non ha bisogno di ulteriori spaccature ma di soluzioni condivise e ricercate con molta più pazienza per disinnescare conflittualità latenti.

Le responsabilità di Madrid

Sia il governo catalano che quello spagnolo hanno la responsabilità di aver portato la Catalogna in questa situazione, ma soprattutto Madrid ha anche quella della sua pessima gestione e della violenza che ne sta scaturendo.

Infatti, negli ultimi anni, la Spagna è stata incapace di ripensare ad una forma di stato alternativa che superasse un modello di comunità autonome considerato squilibrato e insufficiente da parte di molte comunità, Catalogna in primis.

Il peccato originale che ha dato forza a nuove pulsioni indipendentiste è senza dubbio quello del 2010, quando la Corte Costituzionale spagnola ha respinto la riforma dello Statuto di Autonomia approvata dal Parlamento catalano. In un contesto di forte recessione economica (la disoccupazione era aumentata di dieci punti in un solo anno), un milione di catalani scese per le strade di Barcellona chiedendo a gran voce l’indipendenza.

Nel 2011, Mariano Rajoy stravinse le elezioni politiche in Spagna e il filo con Barcellona si assottigliò ulteriormente. Le discussioni si spostarono su questioni di redistribuzione fiscale: l’allora presidente della Generalitat, Artur Mas, incontrò il Primo Ministro a Madrid chiedendo più fondi e meno tasse per i catalani, ma Rajoy chiuse subito la finestra di dialogo sostenendo che una riforma di questo tipo sarebbe stata contraria al totem costituzionale.

Questi passaggi a vuoto culminarono nel 2014 con la bocciatura di una proposta di accordo su un referendum da parte del parlamento spagnolo, proprio mentre la Scozia si accingeva a votare su un’eventuale secessione dal Regno Unito.

L’indipendentismo catalano finisce sempre più spesso sulle prime pagine dei giornali nazionali e nella cosiddetta ‘Spagna profonda’ si diffonde sempre di più un sentimento ‘catalanofobico’. In Catalogna, quindi, gli indipendentisti aumentano i consensi sulla base di un diffuso senso di rifiuto da parte del resto del paese.

La dura repressione preventiva voluta dal governo del Partido Popular in queste ultime settimane prima del voto e le vergognose immagini di oggi degli interventi della polizia spagnola nei seggi elettorali, stanno portando ulteriore forza alla causa indipendentista.

Rajoy si è trovato in una situazione scomoda, in cui poteva essere tacciato di immobilismo o di autoritarismo a seconda della risposta scelta alla sfida di Puigdemont e dei membri del governo catalano alla decisione della Corte Costituzionale.

Il primo ministro ha optato per la seconda strada, andando ben oltre la più ragionevole opzione di lasciare svolgere il voto e dichiarare illegittimo il risultato, trasformando così il referendum catalano da una consultazione sull’indipendenza ad una sulla democrazia.

Scenari e riflessioni sul referendum

Arrivati a questo punto, è difficile ipotizzare cosa succederà dopo il voto. Il pugno duro mostrato da Madrid ha creato una rottura interna allo stato spagnolo difficilmente sanabile, mentre le forze di sicurezza catalane hanno fatto un passo politico estremamente importante, non intervenendo per sgomberare i seggi elettorali.

In ogni caso, con o senza la Catalogna, la Spagna si trova oggi a doversi ripensare a livello profondamente strutturale per la prima volta dopo la guerra civile degli anni trenta.

In fondo, a prescindere da cosa succederà, spagnoli, catalani che si sentono spagnoli e catalani indipendentisti dovranno continuare a convivere gomito a gomito, sulla base dei profondi legami familiari, sociali ed economici che continueranno ad essere comunque indissolubili.

Quel che è certo, è che ancora una volta il rigido dogma nazionalista di entrambe le parti ha portato all’assenza di dialogo e a un pericoloso scontro politico di difficile soluzione.

 

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