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Che cos’è il Pil e quali sono le alternative per misurare il benessere di un paese

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La validità del Prodotto interno lordo è messa in dubbio da studiosi e governi. Quali sono i suoi limiti? E quali sono le possibili alternative?

Per conoscere il nostro benessere economico, siamo abituati ad affidarci al Prodotto interno lordo (Pil), l’indicatore formulato dall’economista Simon Kuznet, premio Nobel per l’economia nel 1971.

Ma recentemente la validità di questo indice è stata sempre più messa in dubbio da studiosi, organizzazioni internazionali e governi. Quali sono i limiti di questo strumento? E quali le possibili alternative? TPI lo ha chiesto a Bianca Biagi, professoressa associata in Politica economica all’Università degli Studi di Sassari.

Ci può dare una definizione di Pil per i non addetti ai lavori?

Il Pil è uno degli indicatori maggiormente utilizzati per quantificare la produttività di un paese e la sua capacità di produrre ricchezza. Non misura quindi la ricchezza in sé, ma è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di un paese, da residenti e non, in un determinato periodo. Ancora oggi buona parte dei lavori scientifici main stream utilizzano questo indicatore per misurare la crescita e lo sviluppo economico. Tuttavia, nel corso del tempo, molti studiosi, governi e organizzazioni internazionali hanno evidenziato le debolezze di questo indicatore”.

Quali sono i difetti del Pil?

Il Pil non prende in considerazione alcuni elementi che sono sostanziali per misurare la produttività di un paese. Per esempio, solo per citarne alcuni, non tiene conto del lavoro domestico, del volontariato, dei costi ambientali della produzione, del costo della criminalità e in generale dell’economia sommersa.

Il Pil è criticato anche per essere una misura parziale del benessere e dello sviluppo di una società e non dice niente sulla distribuzione della ricchezza. La distribuzione è importantissima non solo per una questione di equità e benessere individuale. 

Il Pil ha “concorrenti”, indicatori che ci danno la possibilità di misurare la salute di uno stato?

Un esempio è l’Indice di benessere economico sostenibile – o Index of sustainable economic welfare (Isew) – o il Genuine progress indicator (Gpi), letteralmente indicatore del progresso autentico sviluppato dagli economisti Daly, Cobb e Lawn.

Il Gpi distingue le spese che migliorano il benessere individuale, come quelle legate al consumo di beni e servizi, dalle spese che lo peggiorano, come i costi del crimine, dell’inquinamento ambientale, gli incidenti stradali, ecc.

Da qualche anno l’Istat ha iniziato a stimare l’economia non osservata, sia sommersa in senso stretto che attività illegali. La cifra approssimata si aggirerebbe attorno ai 211 miliardi di euro per il 2014, circa il 13 per cento del PIL. 

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Ma nella vita pratica di tutti i giorni questi numeri e percentuali hanno una connessione con la felicità e soddisfazione di una persona? 

Nel 1974 l’economista e demografo americano Richard Easterlin, riprendendo i risultati di studi individuali sulla felicità, apriva il dibattito attorno al “paradosso della felicità”. In pratica, la felicità umana cresce con l’aumentare del reddito ma fino a certi livelli oltre i quali inizia a diminuire.

Easterlin spiega il paradosso sulla base della teoria del “reddito relativo” di Duesenberry del1949 e prima ancora di Veblen nel 1899. In altre parole, se il mio reddito individuale aumenta ma quello del mio “vicino” aumenta di più, la mia utilità diminuisce anche se il mio reddito e il consumo sono aumentati. Molti scienziati propongono di spiegare il “paradosso della felicità” ricorrendo all’ipotesi del reddito relativo.

Gli studiosi offrono anche altre spiegazioni al paradosso della felicità, alcune di queste spiegazioni derivano dagli studi di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. Un esempio è il preference shift (spostamento delle preferenze individuali), cioè la tendenza dei bisogni materiali ad aumentare al crescere del reddito. Gli studi applicati hanno messo in luce come la crescita del reddito sposti le aspirazioni verso l’alto, distruggendo buona parte dell’aumento di benessere generata dall’aumento di reddito stesso.

Ma nel benessere di un individuo, oltre al reddito, cosa ne accresce qualità?

Uno dei maggiori contributi in questo senso è dato dal Nobel per l’Economia Amartya Sen, il quale riconosce nel reddito e nel consumo elementi essenziali per il benessere individuale ma pone al centro del benessere individuale le possibilità o opportunità reali (libertà) che gli individui hanno nel raggiungere effettivamente i propri obiettivi individuali.

Ma le grandi istituzioni mondiali come vedono questi indicatori alternativi? Li utilizzano per pianificare il loro operato?  

Dal 1990 il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo utilizza lo Human Development Index (l’Indice di sviluppo umano) ispirato proprio al lavoro di Sen e della sua coautrice Martha Nussbaum. Questo indice è il risultato della performance di singoli paesi rispetto a tre dimensioni: l’aspettativa di vita, l’istruzione e il reddito.

Per tenere conto della complessità della valutazione del benessere, recentemente, l’Oecd propone il Better life index composto da 11 indicatori che misurano le varie dimensioni del benessere come le condizioni abitative, reddito, lavoro, relazioni sociali, istruzione, ambiente, impegno civico, salute, sicurezza, soddisfazione di vita, conciliazione dei tempi di vita. 

Ci può fare qualche esempio di paese con buoni livelli di benessere ma Pil lontanissimo dai big mondiali?

Prendendo l’ultimo indice menzionato, il Better life index dell’Ocse e provando a dare lo stesso peso a tutti gli 11 indicatori delle dimensioni di benessere, troviamo ai primi 10 posti Norvegia, Australia, Danimarca, Svizzera, Canada, Svezia, Nuova Zelanda, Finlandia, Stati Uniti e Islanda.

Tuttavia, la posizione dei paesi nella classifica cambia a seconda del peso dato a ciascuna dimensione. Quando si attribuisce il peso maggiore alla dimensione reddito e occupazione, gli Stati Uniti passano al primo posto, la Norvegia al quarto, la Svizzera mantiene quasi inalterata la sua posizione, la Danimarca si sposta all’ottavo posto, la Svezia al nono e la Finlandia slitta al quindicesimo.

Quando invece si attribuisce un peso maggiore alla dimensione “soddisfazione di vita”, la Norvegia riprende il primo posto, la Danimarca il terzo e gli Stati Uniti spariscono dalla top 10. 

Si parla tanto di rapporto deficit/pil, come nelle regole di Maastricht, ma in cosa consistono queste regole? 

L’indebitamento netto è la differenza tra entrate e le uscite in un dato anno solare compresi gli interessi sul debito pubblico. 

Tra i criteri di convergenza stabiliti nel Trattato di Maastricht per l’ammissione dei singoli paesi all’unione monetaria (criteri di Maastricht), ne risultano due di natura fiscale: deficit (disavanzo o indebitamento netto) di bilancio pubblico non superiore al 3 per cento sul PIL e il debito pubblico inferiore al 60 per cento sul PIL o in costante diminuzione verso questo limite di riferimento. 

Stare entro la famosa percentuale del 3 per cento significa realmente essere un paese credibile e solido?

La scelta della soglia massima del 3 per cento è stata arbitraria. Com’è oramai noto, la percentuale non è stata scelta su basi scientifico/teoriche ma deriva da una precedente applicazione del governo francese riproposta come parametro guida per il trattato di Maastricht.

Non è detto che chi rispetti la soglia sia un paese virtuoso, credibile o solido. Tuttavia, è opportuno rilevare che sicuramente non è credibile o solido un paese che a fronte di uno zaino pesante di stock di debito pubblico continua a indebitarsi e produrne altro incrementando il dazio da pagare delle generazioni future.

La professoressa Biagi si è specializzata in scienze regionali presso l’Università di Reading e l’Università di Southampton (Regno Unito). È componente del collegio dei docenti del dottorato in Urban Studies and Regional Science della Scuola Universitaria Superiore del Gran Sasso Science Institute con sede all’Aquila.

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