Il Gange, fiume sacro e inquinato
Milioni di fedeli si immergono ogni anno nelle acque del Gange. Eppure è uno dei 10 fiumi più inquinati al mondo
La vita di un induista è incompleta senza un bagno nelle sue acque, archetipo di sacralità. Ogni anno milioni di indiani vi si immergono in un antico rituale di preghiera e purificazione. Eppure il fiume più grande e venerato d’India, il Gange, è oggi anche il più inquinato del subcontinente, tra i dieci più inquinati al mondo.
A gennaio, quando 80 milioni di fedeli, giunti in pellegrinaggio al raduno induista del Kumbh Mela, erano pronti a bagnarsi nel Sangam – la confluenza dei fiumi Gange e Yamuna – le autorità hanno annunciato che le acque ritenute sacre non erano né potabili né balneabili. Per diluire l’inquinamento, grosse quantità di acqua sono state rilasciate dalle dighe, così da permettere ai pellegrini di immergersi per i rituali bagni purificatori.
Già durante il precedente raduno religioso, nel 2007, alcune sette di Sadhu avevano protestato contro l’inquinamento rifiutando di bagnarsi nel fiume sacro. “Ganga Mata”, come lo chiamano i fedeli, madre Gange. Una protesta trasversale, portata avanti sia dalla destra induista del Bharatiya Janata Party che da scienziati e attivisti.
Dopo il fallimentare Ganga Action Plan (Gap) lanciato nel 1986 per ripulire il fiume, nel 2008 il primo ministro Manmohan Singh ha dichiarato il Gange “fiume nazionale” e l’anno successivo è nato il National Ganga River Basin Authority (Ngrba): un ente, da lui presieduto, il cui scopo è finanziare, implementare e monitorare le politiche contro l’inquinamento, non solo del Gange ma dell’intero bacino gangetico.
Il bacino, che con i suoi nove fiumi occupa un’area di un milione di chilometri quadrati dall’Himalaya al Golfo del Bengala, è uno dei più densamente popolati al mondo: 400 milioni di persone, oltre un terzo della popolazione indiana, utilizzano le acque del Gange e dei suoi otto affluenti (compreso lo Yamuna, altrettanto sacro e inquinato) per uso domestico, agricolo e rituale. Anche la falda acquifera, intensamente sfruttata, risente dell’inquinamento.
Lungo le rive del Gange e dello Yamuna sorgono grossi agglomerati urbani e industriali come Delhi, Allahabad, Varanasi, Patna, Calcutta e Kanpur, che scaricano nel fiume i loro liquami: molte delle città indiane non hanno un’adeguata rete fognaria o mancano del tutto gli allacci agli Stp (sewage treatment plant), gli impianti di depurazione, al cui sovraccarico e malfunzionamento si aggiungono i continui blackout di cui soffre l’India.
Secondo gli esperti gli scarichi fognari costituiscono l’80 per cento dell’inquinamento dei fiumi: ogni giorno tre miliardi di litri di liquami urbani finiscono nel Gange, dei quali solo il 45 per cento viene trattato. Altri due miliardi di litri tra fogne e acque reflue vengono sversati nello Yamuna. Facile immaginare come i due fiumi più sacri d’India siano oggi contaminati da livelli di colibatteri e virus migliaia di volte superiori ai limiti, causa di malattie gastrointestinali, epatiti, parassitosi, colera e diarrea, che in India uccide migliaia di bambini ogni anno.
“Stiamo annegando nei nostri stessi escrementi”, ha dichiarato qualche tempo fa Sunita Narain, direttrice del Centre for Science and Environment (Cse), un’accreditata ong che si occupa di ambiente. “La mancanza di servizi igienici, di un sistema fognario adeguato e di allacci agli Stp rende fiumi e canali di scolo delle fogne a cielo aperto”, continua Nitya Jacob, del Cse.
E infine gli scarichi industriali: anche se responsabili del solo 20 per cento dell’inquinamento, hanno un enorme impatto ambientale. Le concerie, distillerie e fabbriche di carta e zucchero che costellano la pianura gangetica contaminano i fiumi con metalli pesanti, agenti chimici e sostanze tossiche non smaltibili. Altri inquinanti provengono dalle acque reflue dell’agricoltura, ancorata a schemi irrigativi arcaici e poco sostenibili.
Ma il problema è a monte, concordano gli esperti, laddove dighe, tunnel e centrali idroelettriche deviano il corso dei fiumi e ne riducono il flusso naturale, aumentando così l’impatto degli scarichi urbani e industriali. “The solution to pollution is dilution” è il motto del professor B.D. Tripathi dell’Università di Varanasi, membro dell’Ngrba: l’idea di base, che riflette l’approccio tradizionale, è che l’inquinamento, se sufficientemente diluito, non è dannoso.
Nell’ultimo ventennio, il boom economico (e demografico), cui è seguita un’industrializzazione selvaggia insieme al crescente bisogno di energia elettrica, ha spinto il gigante asiatico ad abusare dell’ambiente e del suo delicato ecosistema. Nel periodo di magra, i fiumi sono torbidi, oleosi. I rifiuti solidi galleggiano trascinati dalla corrente a pochi metri dai fedeli sui ghat, assorti in preghiere e abluzioni.
Eppure gli induisti credono nelle proprietà divine del Gange: una sola goccia è in grado di purificare il corpo e lo spirito, lavare i peccati e liberare dal “samsara”, il ciclo di morte e rinascita. Un bramino di Varanasi, devoto di Gangaji come solo chi ha la fortuna di essere nato sulle sue sponde può essere, quando gli si chiede come mai i fedeli continuino a sversare nel Gange, risponde che è “perché davvero considerano il fiume come una madre. Una madre che prende tutto ciò che i suoi figli le danno, senza protestare”.