«I Democratici sono diventati il partito della divisione e dell’odio. In passato ho votato per loro, ma adesso voterò per i Repubblicani». Con questo cinguettio, pubblicato sul suo profilo lo scorso 18 maggio, Elon Musk ha sancito una volta per tutte che la sua imminente (sebbene ancora non conclusa) acquisizione di Twitter potrebbe segnare l’ennesimo cambio di paradigma nei rapporti tra i social media e la politica occidentale. A metà aprile, del resto, quando l’imprenditore sudafricano aveva annunciato l’intenzione di comprare la piattaforma di microblogging, alcuni tra i più autorevoli esponenti del progressismo americano avevano lanciato l’allarme: «Questa operazione rappresenta un pericolo per la nostra democrazia», aveva tuonato la senatrice Elizabeth Warren, da sempre in prima linea nella lotta allo strapotere delle Big Tech. Dall’altra parte della barricata, al contrario, i Repubblicani facevano festa. Marsha Blackburn, senatrice del Tennessee, cinguettava trionfante: «Questo è un grande giorno per i conservatori su Twitter. L’arrivo di Musk sta terrorizzando la sinistra». Che tra il magnate e l’amministrazione Biden non scorra buon sangue è, d’altronde, cosa nota: Musk si è più volte lamentato per l’atteggiamento del presidente Usa nei confronti di Tesla (la compagnia produttrice di auto elettriche di cui Musk è amministratore delegato) a suo dire «apertamente ignorata e penalizzata» da Biden a beneficio di aziende concorrenti come Ford e General Motors.
E già in tempi non sospetti, il miliardario sudafricano aveva espresso nostalgia per l’efficienza dell’amministrazione Trump: «A differenza di Biden – scriveva Musk proprio su Twitter – Trump era in grado di portare a termine le cose».
Ma l’entusiasmo della destra americana nei confronti di Elon Musk va compreso all’interno di una cornice più ampia: il takeover di Twitter, qualora venisse finalizzato, potrebbe infatti riportare i social media nell’era del populismo digitale, ovvero quella commistione tra infrastrutture delle piattaforme e discorso politico culminata, nel 2016, con l’elezione di Trump alla Casa Bianca e la vittoria del “Leave” nel referendum sulla Brexit.
Musk ha già chiarito che, sotto la sua guida, Twitter riaprirà immediatamente le proprie porte all’ex presidente Usa. La cacciata del tycoon, avvenuta nel gennaio del 2021 dopo l’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill, ha segnato il culmine di una “guerra santa” tra i conservatori e le piattaforme social che ha preso forma solo di recente. Il passato, però, racconta una storia ben diversa.
Per anni i social media hanno infatti rappresentato il terreno di coltura del populismo di destra: in nome della libertà di espressione, infatti, piattaforme come Facebook e Twitter hanno lasciato proliferare un’ondata di disinformazione spesso orchestrata da agenzie straniere come la Internet Research Agency, la compagnia russa che organizza campagne di propaganda online per conto del Cremlino e che aveva dato vita a una gigantesca operazione di manipolazione delle elezioni Usa 2016 (quelle vinte da Trump), come attestò a suo tempo l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Come emerso anche nei “Facebook Papers”, i documenti riservati della compagnia di Mark Zuckerberg rivelati dalla whistleblower Frances Haugen, tra il 2015 e il 2018 i social media hanno favorito l’ascesa del populismo sovranista nelle democrazie occidentali, costruendo (in nome dell’assenza di regole) un’infrastruttura ideale per la proliferazione dei contenuti incendiari e di informazioni false.
Un modus operandi culminato nello scandalo Cambridge Analytica, la società di consulenza fondata dall’ex guru del trumpismo Steve Bannon che aveva illecitamente ottenuto da Facebook i dati di milioni di cittadini americani allo scopo di manipolarne le preferenze elettorali.
È stato in quel momento, però, che qualcosa è cambiato: l’onda lunga degli scandali, la pressione delle autorità antitrust e dell’Ue, hanno determinato una progressiva regolamentazione che le piattaforme si sono, in qualche modo, anche auto-imposte.
La cacciata di Trump da Twitter ha rappresentato quindi l’epilogo di questo cambio di paradigma: da lì in poi, i social media nella narrazione dei Repubblicani sono diventati improvvisamente “di sinistra”, pronti a favorire coi loro algoritmi i contenuti di area progressista e a punire quelli conservatori con immotivate censure…
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