«Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu». Nulla meglio di questo celebre aforisma è in grado di riassumere quel gigantesco inganno che, da vent’anni a questa parte, ha consentito a un ristretto gruppo di compagnie digitali di trasformarsi in superpotenze economiche, spazzare via la concorrenza, soverchiare Stati e istituzioni sovranazionali e, soprattutto, cancellare la privacy degli utenti.
Il tutto, sfruttando un bene tanto prezioso quanto invisibile: i nostri dati. Già, perché quella immensa e apparente libertà che ci consente di parlare con chiunque, ovunque, in ogni momento, e che ha ispirato gli ideali della rivoluzione digitale fin dai suoi albori, si è lentamente capovolta, nel corso degli anni, in un perverso capitalismo della sorveglianza. Ogni nostra azione, sulle grandi piattaforme digitali, viene monitorata, tracciata, e infine convertita nella merce di scambio con cui le Big Tech attraggono gli investitori pubblicitari e generano (per se stesse) immensi profitti.
Quando mettiamo un like, commentiamo un post, visitiamo un sito, diamo in mano a queste compagnie dati che verranno poi processati dagli algoritmi: come spiegato efficacemente nel docufilm “The Social Dilemma”, in questo modo i colossi del web non sanno soltanto cosa ci piace, con chi interagiamo, ma anche se siamo felici o depressi, quale potrebbe essere il nostro comportamento se sottoposti a certi stimoli, quali emozioni proveremo. Una gigantesca macchina che, attraverso la raccolta di informazioni, è poi in grado di inviarci gli annunci pubblicitari più corrispondenti ai nostri gusti. Se in passato un’azienda doveva fare grandi sforzi per comprendere quale fosse il suo pubblico di riferimento, ed era esposta al rischio di fare flop mostrando i propri prodotti a persone non interessate, ora le basta affidarsi alle Big Tech per sapere che la sua pubblicità verrà inserita tra un video e l’altro di YouTube e mostrata agli “utenti giusti”. Per questo le piattaforme sono interessate al nostro coinvolgimento emotivo: più saremo attivi, più dati lasceremo, e più sarà facile raggiungerci con la pubblicità personalizzata, permettendo così alle aziende di investire le proprie risorse “a colpo sicuro”.
Si tratta di un vero e proprio business delle emozioni e della socialità, poiché ogni nostra interazione, in un sistema così costruito, genera un profitto economico. Renderci iper-socializzati, in costante attesa di una notifica, dipendenti da like e commenti, sfruttando il naturale desiderio umano di sentirsi apprezzati, riconosciuti o anche solo in compagnia di qualcuno, è infatti funzionale ad accumulare informazioni che permetteranno alle piattaforme di vendere spazi pubblicitari agli inserzionisti. Tutto il sistema economico che ha permesso alle Big Tech di fare man bassa dei profitti generati in rete si basa quindi su questa trappola costruita sulla disponibilità a lasciare loro i nostri dati in cambio dell’apparente gratuità di servizi a cui, ormai, non saremmo più in grado di rinunciare.Porre un freno a questo meccanismo minerebbe alla radice il modello di business di molti colossi del web. I quali, consapevoli del pericolo, negli ultimi anni hanno fatto di tutto per respingere gli assalti di istituzioni e autorità di garanzia. Spesso a colpi di pressioni lobbistiche. E spesso godendo di appoggi e protezioni ai più alti livelli.
Quando, ad aprile del 2021, Apple ha deciso di introdurre una funzione (denominata App Tracking Transparency) che prevede il consenso esplicito degli utenti per il tracciamento a fini pubblicitari su ogni app o sito web, nel quartier generale di Facebook, a Menlo Park, erano tutti consapevoli che si sarebbe trattato di un colpo durissimo da assorbire, potenzialmente in grado di mettere a rischio una fetta consistente di profitti e di far fuggire dai social della galassia Zuckerberg un’enorme quantità di inserzionisti pubblicitari.Nel momento in cui, infatti, agli utenti viene data una semplice e concreta possibilità di proteggere la propria privacy, il valore di ogni singolo annuncio pubblicitario sulle piattaforme può calare drasticamente. Si torna cioè ad un sistema in cui un’azienda, se acquista uno spazio promozionale online, non è più certa che il suo messaggio arriverà ai clienti più propensi ad acquistare. Facebook, all’epoca, protestò in maniera veemente. Sheryl Sandberg, ex direttrice operativa della compagnia, spiegò che l’introduzione dell’App Tracking Transparency aveva reso gli annunci sulle piattaforme meno accurati, prevedendo un impatto negativo sui ricavi della compagnia di circa 10 miliardi di dollari all’anno. Lo scorso febbraio, un articolo del Wall Street Journal raccolse le testimonianze di decine di aziende che stavano abbandonando Facebook e Instagram, poiché in assenza dei dati degli utenti, il costo per riuscire a rendere efficaci i loro annunci su queste piattaforme era cresciuto di circa dieci volte. Un report di Bloomberg, pubblicato alcuni mesi dopo l’introduzione dell’ATT, mostrò come solo il 25 per cento degli utenti Facebook avesse dato il consenso per il tracciamento dei propri dati. La successiva svolta di Zuckerberg in direzione del Metaverso è stata, in qualche modo, anche una conseguenza di questa crescente difficoltà a monetizzare sui dati degli utenti, nel tentativo se non di cambiare, perlomeno di diversificare il modello di business della sua compagnia.
Che i nostri dati siano essenziali per i profitti delle Big Tech lo dimostra anche la pressione lobbistica esercitata da queste compagnie nei confronti delle istituzioni europee. L’Ue, negli ultimi anni, ha infatti provato a intervenire in maniera decisa per tutelare la privacy degli utenti. Il General Data Protection Regulation (Gdpr), ovvero il regolamento europeo sul trattamento e la protezione dei dati, ha rappresentato su questo fronte un primo cambio di paradigma, ponendo un significativo freno all’accumulo e allo sfruttamento delle informazioni da parte delle grandi compagnie digitali. Più di recente, l’Unione europea ha varato il Digital Services Act, una legge che, tra le altre cose, impone alle piattaforme una maggiore trasparenza sull’invio di pubblicità mirata. Si è trattato, però, di una vittoria di Pirro.
La formulazione iniziale della norma, infatti, era ben più dura, poiché prevedeva o l’abolizione totale degli annunci personalizzati, o un sistema in cui sarebbe stato l’utente, se lo desiderava, a dover esplicitamente attivare un’opzione per il tracciamento, non presente di default. Come aveva spiegato a TPI Margarida Silva, ricercatrice del think tank Corporate Europe Observatory (Ceo), «il risultato finale, favorevole alle Big Tech è stato un effetto diretto delle pressioni lobbistiche di queste compagnie, che hanno portato avanti una narrazione secondo cui la pubblicità mirata è essenziale non tanto per il loro business, quanto per quello delle piccole e medie imprese». Si è trattato, così, del secondo assalto respinto dai colossi del web dopo quello del 2016, quando l’Ue cercò di limitare l’uso dei dati a fini commerciali attraverso una legge denominata ePrivacy. La normativa avrebbe potuto penalizzare pesantemente il business di compagnie come Google e Facebook, ma rimase ferma per circa quattro anni al Consiglio europeo, poiché gli Stati membri non riuscivano a trovare un accordo politico.
Alla fine venne fortemente ridimensionata e, ancora una volta, a rivelarsi decisiva fu l’attività di lobbying delle grandi compagnie digitali, che riuscirono così a preservare la possibilità di fare soldi coi nostri dati.
A frenare l’attivismo dell’Europa hanno contribuito, di recente, anche gli Stati Uniti. A Washington, infatti, in pochi sembrano realmente interessati a mettere a repentaglio il business dei dati delle Big Tech. Lo scorso febbraio, mentre l’Ue si apprestava a varare il Digital Services Act, il governo Usa spedì una lettera a Bruxelles in cui intimava di non approvare norme potenzialmente in grado di discriminare le aziende americane. Gli Usa sono consapevoli di poter sfruttare lo strapotere delle grandi compagnie digitali per mantenere una forma di egemonia politica e culturale nei confronti dell’Europa.
E per raggiungere questo fine, sembrano disposti a difendere un modello economico e culturale che considera la libera circolazione dei dati a fini commerciali molto più preziosa rispetto alla tutela della privacy degli utenti.Un importante banco di prova, su questo fronte, è stata la recente controversia sul trasferimento dei dati degli utenti tra le due sponde dell’Atlantico. Lo scorso febbraio, Meta aveva addirittura minacciato di chiudere Facebook e Instagram in Europa se non fosse stato adottato «un nuovo quadro normativo sul trasferimento transatlantico dei dati». In sostanza, la compagnia di Zuckerberg premeva affinché ai dati dei cittadini europei non si potessero applicare, in territorio americano, le stesse restrizioni presenti all’interno dei confini Ue.
Il tutto, come al solito, per evitare un’ulteriore emorragia di ricavi. Dopo lunghe trattative, lo scorso 22 marzo Joe Biden e Ursula Von Der Leyen hanno annunciato la firma del Trans-Atlantic Data Privacy Framework, un accordo preliminare sul trasferimento dei dati tra Usa e Ue. «Questo accordo sottolinea il nostro impegno condiviso per la privacy, la protezione dei dati e lo Stato di diritto», ha dichiarato Biden. «Abbiamo trovato un’intesa di principio per un nuovo modello che consentirà flussi di dati prevedibili e affidabili, salvaguardando la privacy e le libertà civili», gli ha fatto eco Von der Leyen.Ma sarà davvero così? Il Comitato europeo per la protezione dei dati (Edpb) si è espresso sull’accordo con estrema prudenza, chiarendo come ci siano diversi punti che dovranno essere oggetto di attenta valutazione. A mostrarsi scettici sono stati anche numerosi esperti di privacy: il timore diffuso è che si tratti di un compromesso al ribasso che potrebbe addirittura indebolire le tutele previste dal Gdpr. E le Big Tech, per il momento, hanno salutato l’intesa con favore.
Ad oggi, nonostante le tutele per gli utenti in tema di privacy siano cresciute rispetto al passato, e nonostante l’iniziativa dell’Europa abbia di fatto limitato il far west della deregolamentazione totale, siamo ancora all’interno di un modello di business che ruota attorno alla raccolta dei nostri dati. Che generano profitti economici per le Big Tech e rappresentano un potente strumento di condizionamento politico per chi le sostiene.