Ai campionati italiani paralimpici di atletica leggera di Jesolo, disputati venerdì 11 e sabato 12, Valentina Petrillo ha vinto tre ori: nel 200 metri femminile (la sua disciplina preferita, nella quale ha totalizzato un tempo di 27.47), ma anche nelle lunghezze dei 100 e 400. Ma non è “solo” per questo che tutte le attenzioni sono puntate su di lei: Valentina, che una volta si chiamava Fabrizio, in questi due giorni di gare ha scritto la storia dello sport italiano, diventando la prima atleta transgender a prendere parte a una gara valevole per le qualificazioni paralimpiche.
Una storia così appassionante da ispirare un film, attualmente in lavorazione. Si chiama 5 nanomoli – Il sogno olimpico di una donna trans, titolo direttamente ispirato alle regole che lo sport si è dato per tenere il passo con i cambiamenti della società. I 5 nanomoli (per litro) sono la soglia sotto la quale deve rimanere, per dodici mesi continuativi, il tasso di testosterone degli atleti nati uomini e poi diventati donne, ma senza sottoporsi a intervento chirurgico, come nel suo caso.
Valentina ha 46 anni e un fisico imponente: 182 cm per 81 kg. Da uomo ne pesava 77 e ha vinto 11 titoli italiani: il suo non è certo un caso di competizione sleale, ma una vicenda umana che si intreccia con la passione sportiva. Non a caso, sul suo profilo Facebook ha scelto un motto davvero eloquente: “Meglio donna più lenta piuttosto che uomo più veloce!”.
Nato a Napoli, Fabrizio tenta la via del calcio, come portiere, ma scartato dal club azzurro ripiega sul calcetto, mentre la passione per le imprese di Pietro Mennea, anche come simbolo di riscatto di un meridione sempre bistrattato, lo avvicinano all’atletica.
Alle scuole medie avverte i primi problemi di vista e ben presto scopre di avere la Sindrome di Stargardt, una degenerazione maculare ereditaria per la quale ancora oggi non c’è cura. Nonostante la condizione di ipovedente, a vent’anni si trasfrisce a Bologna, dove diventa programmatore informatico e inizia a praticare atletica, con risultati più che incoraggianti. Già nel 1995 potrebbe puntare a qualificarsi per le Olimpiadi di Atlanta dell’anno successivo, ma il disagio derivante dal conflitto con la propria natura maschile lo spinge a demordere. A gennaio 2019 comincia il trattamento ormonale, percorso per nulla facile: il peso aumentato di 10 kg e i forti dolori impediscono a Fabrizio, che ora si chiama Valentina, di correre per ben tre mesi.
Ma la voglia di tornare in pista è più forte di ogni ostacolo e la spinge a correre verso un altro primato storico: arrivare a Tokyo 2021 per essere la prima atleta trans a rappresentare l’Italia. Una sfida emozionante, che verrà raccontata del documentario diretto da Elisa Mereghetti e Marco Mensa e prodotto da Etnhos e Gruppo Trans, con il sostegno di Uisp (Unione Italiana Sport Per tutti) e Arcigay (Associazione Lgbti italiana). Al film, in veste di consulente, partecipa anche Joanna Harper, studiosa canadese e autrice di numerosi studi sugli atleti transgender. Saranno inoltre coinvolte diverse organizzazioni americane impegnate per la corretta rappresentazione delle persone trans nei media, compresa la rivista Outsports.
Commentando la sua adesione al progetto, Valentina spiega: “L’idea di raccontare attraverso un documentario la mia vicenda di persona e di sportiva mi ha incuriosita sin da quando mi fu proposta. Ho consentito alla telecamera di entrare nella mia vita e di raccontare quello che mi succedeva. Attraverso questa esperienza mi sono trovata a specchiarmi nel mio mondo e a riguardarmi dall’esterno. Vorrei trasmettere quello che provo ogni giorno nella mia vita, quando corro e quando affronto le mie difficoltà ad esprimere quella che sono, in una società che per forza vuole darti un nome, una collocazione e definirti attraverso un genere sessuale. Vorrei arrivare soprattutto a chi, ancora oggi, crede che essere trans sia un peccato, a chi crede che esistano solo due colori. Vorrei trasmettere la mia esperienza a tanti ragazzi smarriti che sentono dentro ‘qualcosa’ ma sono costretti a nascondersi e si chiudono in se stessi. Vorrei non sentire mai più dire ‘avevo paura’”.
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