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The Last Dance di Michael Jordan, il bullismo del sogno americano

Illustrazione di Emanuele Fucecchi
Di Emanuele Giammarco
Pubblicato il 26 Mag. 2020 alle 10:42 Aggiornato il 27 Mag. 2020 alle 14:05

Quanti di noi hanno potuto passare la quarantena in condizioni pseudo normali, in spazi non troppo angusti e non troppo affollati, al riparo da preoccupazioni economiche troppo asfissianti, potranno ricordarsi di aver riempito il tempo dilatato del lockdown con l’attesa dei nuovi episodi di The Last Dance, una delle serie di maggior successo di sempre sulla piattaforma Netflix. Non c’è dubbio, anzi, che parte del suo enorme successo abbia avuto a che fare proprio con le aspettative che l’hanno circondata sin da subito, in pieno stallo globale, in special modo se pensiamo alla modalità con cui è stata trasmessa (due nuove puntate ogni lunedì per cinque settimane).

Cosa ci aspettavamo dalla serie, e cosa sembrava prometterci? L’ultimo ballo del titolo fa riferimento al nome dato da coach Phil Jackson all’ultima stagione dei Chicago Bulls, quella del ’98 e del secondo ritiro di Michael Jordan, durante la quale la troupe di Michael Tollin ha potuto registrare immagini di backstage che sono rimaste inedite per più di vent’anni. A partire dal titolo, insomma, The Last Dance si prefiggeva di raccontarci qualcosa in più sull’ennesima impresa di una squadra leggendaria. Già dalla descrizione introduttiva del documentario, tuttavia, si capisce che con MJ di mezzo le cose si fanno per forza di cose più complicate: la serie infatti non intendeva soltanto raccontare “l’ultima stagione dei Bulls” così si legge, ma anche – verrebbe da dire inevitabilmente – ripercorrere per intero “la carriera di Michael Jordan”.

È quindi già dalle sue premesse che The Last Dance ha voluto correre il rischio di attirarsi quelle critiche in seguito puntualmente arrivate alla fine della messa in onda. La sua stessa struttura narrativa, un riuscitissimo montaggio a ritroso che tanto la stagione quanto gli anni che la precedono, ripropone infatti un problema eterno e forse insolvibile di ermeneutica sportiva; quanto conta il singolo all’interno del gruppo? O meglio, trattandosi di MJ: è possibile raccontare l’epopea di una squadra vincente quando il suo leader non è soltanto indiscusso ma di fatto indiscutibile? Alla fine delle dieci puntate viene da chiedersi se davvero questo doppio binario fosse l’unico modo possibile di raccontare e perché, e se la presenza così ingombrante di Michael Jordan non finisca per curvare la narrazione come farebbe una stella con il suo spazio gravitazionale.

Il peso di Michael Jordan nella sua disciplina, del resto, è del tutto unico e imparagonabile. Per soppesarne l’importanza si potrebbe ricorrere a una formula specifica: fra gli atleti di successo in uno sport di squadra MJ è praticamente l’unico atleta, con rarissimi paragoni, su cui sembra possibile spendere giudizi altisonanti senza risultare un fesso, ma conservando addirittura un certo grado di obiettività. Come disse Magic Johnson in una famosa scenetta con Larry Bird, in posa per una foto con Jordan all’alba delle Olimpiadi del ‘93, “meglio non avvicinarsi troppo a Mike altrimenti ti fischiano fallo”. L’aura di Michael è quella dell’intoccabile, il suo valore irriducibile e indistruttibile alla prova del tempo, il suo posto nelle gerarchie del basket unanimemente riconosciuto al vertice. Praticamente per legge.

Tentando di quantificare l’inquantificabile, e senza allontanarci dai confini italiani, si può tentare di comprendere il valore dello sportivo e del personaggio soltanto ricorrendo alle solite sentenze altisonanti (e tuttavia consentite). Non credo si possa cadere in errore, per esempio, sostenendo che chiunque sia nato negli ultimi decenni del secolo scorso “debba” la sua passione per l’Nba proprio a MJ. Esiste una lega per vecchi appassionati, quella di Magic e Bird, e una lega jordaniana, in chiaro su Telepiù, commentata da Flavio Tranquillo e Federico Buffa, parente prossima di quella globalizzata che conosciamo oggi. E proprio discutendo di globalizzazione non credo si possa cadere in errore nemmeno sostenendo una tesi ancor più “eretica”. Dato che molti ventenni e trentenni non accettano oggi alcun basket al di fuori di quello americano, per l’orrore di alcuni appassionati più hardcore, non è così sbagliato affermare che la loro passione per la pallacanestro tout court dipenda in maniera decisiva dalla comparsa del numero 23. Per non parlare poi del personaggio: l’uomo col basco e l’orecchino, quello stilizzato a gambe larghe sulle linguette di milioni di scarpe, che ha obbligato ogni buon traduttore dall’inglese a tradurre “sneakers” con “sneakers”, e non più col vetusto “scarpe da tennis”.

Non c’è dubbio infatti che, per chi sia nato a ridosso degli anni ’90, – e anche per chi del basket non sa nulla – crescere alla fine del millennio abbia significato assistere a un’incontrastata invasione di pantaloncini, canotte, action figures, figurine luccicanti e video-game griffati di rosso e bianco; un intero campionario di memorabilia. Per tantissimi Michael Jordan non è stato molto più del suo logo, un brand, un’eredità in cui ci si è trovati di fatto immersi, abbracciata senza problemi e con spontaneo entusiasmo anche da persone che con il basket avevano e hanno a che fare pochissimo. La figura del più forte, insomma, l’abbiamo ereditata quasi inconsciamente.

Per comprendere appieno poi quanto MJ sia stato fondamentale per l’esplosione della lega americana, per l’esportazione del basket a stelle e strisce, basta fare un semplice esperimento: provate a chiedere a chiunque, alla persona meno sportiva che conoscete, se sia in grado di nominare almeno una squadra americana di pallacanestro. Noterete che non solo i Chicago Bulls di Jordan, ma persino squadre che non hanno partecipato fino in fondo a quell’epopea rientrano imperscrutabilmente nell’immaginario di chi è cresciuto in quegli anni. Con il numero 23 si è esportato di tutto, anche quel contesto di cui ogni volta si fatica a rendere conto quando si prova a raccontare la sua storia, come l’ex commissioner David Stern non ha mai smesso di ribadire persino dalla tomba, in alcuni momenti di The Last Dance. Quanti di noi per esempio hanno ricevuto in regalo, tengono ancora nel cassetto, una canotta da bambino degli Orlando Magic? Quanti ricordano il canestrino giocattolo dei Toronto Raptors? Quanti hanno gridato il nome di Michael Jordan cercando di mettere a segno il loro primissimo palleggio arresto e tiro, magari a otto anni, senza aver visto per intero, all’epoca, una sola partita dei Bulls? Esiste qualcuno a cui non piaccia Space Jam, o che non lo ricordi con affetto? A tanti anni di distanza da quell’epoca d’oro dove abbiamo accettato, anzi, introiettato tutto quel marketing, oggi possiamo associare a quell’invasione un nome sinistro, oltre che una leggera e inossidabile nostalgia: soft power.

Michael Jordan è stato l’America ancora ricca ma liberal di Clinton, le hit da record di Michael Jackson, i film di Eddie Murphy, il culmine di un dominio culturale portato avanti lungo tutto il secolo scorso e allora nella sua versione più pop, più commercializzata, quella accolta con il minor sforzo, come fosse la cosa più naturale del mondo. In poche parole: l’America che ha fatto da contorno alla nostra infanzia. Eppure, anche armati del più cupo cinismo, colmi di scetticismo e di disincanto, chi di noi potrebbe negare l’innegabile? Chi vorrebbe mai anche solo provare a sfregiare il monumento di MJ relegandolo a fenomeno di massa? Il giudizio sul giocatore rimane saldo al suo posto: Michael Jordan – “per acclamazione”, come recitano la sua pagina Wikipedia e la sua biografia sul sito dell’Nba – è semplicemente il più grande cestista di tutti i tempi. E anche esistesse un commentatore non perfettamente d’accordo con quest’assunto, non ce n’è letteralmente nessuno tanto coraggioso da escludere MJ dai possibili candidati all’ambìto e caprino titolo di GOAT, the Greatest of All Time. Non considerarlo, quello sì, suonerebbe a chiunque come una vera fesseria.

Eppure è per tutto questo, forse, per il contesto assolutamente particolare che precede ogni dibattito su Jordan, che in molti, compresi i compagni di squadra intervistati in The Last Dance, hanno trovato forse per la prima volta quest’epopea quantomeno ridondante; e per una volta varrebbe la pena lanciarsi in voli pindarici ragionando sul momentum, come dicono gli americani, in cui la serie ha visto la luce, accerchiati da una crisi globale in cui l’America è diventata quella di Trump, rintanata nei propri confini, non più guida del mondo. Trattandosi di immagini mai mostrate prima, di documentario “a freddo”, il giudizio sulla serie non può infatti essere slegato dalle aspettative che ne hanno coltivato l’attesa e l’attenzione. È difficile non domandarsi: che storia voleva raccontare il documentario che già non si conoscesse prima? E che ruolo ha giocato la tempistica con cui è uscito? In quanti sentivano il bisogno di un’altra esaltazione di Michael Jordan?

Non pochi commentatori, cercando di rispondere a queste domande, hanno individuato diversi argomenti per criticare la serie; ragioni con cui si può anche non essere d’accordo ma a cui è difficile non prestare attenzione. Cercando di riassumere le loro posizioni esistono in sostanza due versioni possibili di uno stesso problema, riferite entrambe alla predominanza di MJ nella narrazione: nel primo caso impossibile da evitare, e quindi spontanea e innocente, nel secondo caso frutto di un vero e proprio studio, e quindi deliberatamente scorretta. È innegabile, per esempio, che alla lunga le puntate di The Last Dance intendano più di ogni altra cosa “rimettere le cose al loro posto”, consegnare alla storiografia sportiva un solenne re-statement che ricordi a tutti il predominio assoluto di Michael Jordan nella classifica dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Una riaffermazione che davvero in pochi sarebbero stati disposti a mettere in discussione – se pensiamo a quanto affermato di recente da Kevin Durant sul ruolo che avrebbe il 23 oggi nel campionato Nba – ma che l’agente di Jordan ha sentito comunque il bisogno di rimarcare con un proprio blurb dedicato alla serie: “Bisogna essere davvero ciechi per non accorgersi che è lui il migliore di sempre”.

Dario Vismara, in un interessante articolo uscito di recente su L’Ultimo Uomo, ha fatto poi notare come la decisione di rendere pubbliche le immagini girate nella stagione raccontata dalla serie sia sopraggiunta proprio all’indomani dell’incredibile rimonta di LeBron James nelle Finals del 2016; una rimonta perpetuata per altro contro quei Golden State Warriors che erano stati capaci di polverizzare il record di partite vinte ottenuto proprio da Chicago nel ’96. Da questo punto di vista, anche non fosse frutto di maliziosità, quantomeno per sudditanza psicologica, la serie avrebbe dunque assecondato la volontà di Jordan di raccontare l’unica storia che avrebbe potuto soddisfarlo, quella che lo vede indiscutibilmente come il più forte, la vera ragione dei successi ottenuti dalla squadra – e a prescindere da questioni legate all’imparzialità del documentario è difficile non avere questa sensazione una volta terminate le dieci puntate.

Anche evitando di fare un processo alle intenzioni, il documentario in parte tradisce le aspettative di coloro che da The Last Dance si aspettavano di cogliere qualche sfumatura in più, magari a costo di sporcare la reputazione del campione, o a costo di mettere in risalto i meriti dei compagni di squadra e degli avversari. Anche chi la storia la conosceva, infatti, e chi è rimasto soddisfatto dal modo in cui è stata raccontata, dovrà in questo senso riconoscere che l’idea di riassumere per l’ennesima volta l’epopea del giocatore capace di vincere due volte tre titoli di fila è quantomeno poco innovativa, vista la già sovrabbondante storiografia su Michael Jordan.

Non fosse sufficiente, tuttavia, un’altra serie di critiche hanno scomodato giudizi ancor più severi, ed è interessante constatare quanto quest’ultime, se prese una a una, modifichino addirittura la resa “narrativa” della serie, intesa come pura opera di ingegno.

La più indigesta ha sicuramente a che fare con il ruolo di Jerry Krause. Nella serie il general manager sembra dover catalizzare tutto l’odio e tutte le responsabilità per aver impedito il ripetersi del sogno, per aver smantellato una squadra imbattibile, venendo raffigurato spesso come l’origine di tutti i mali, bullizzato addirittura perché invidioso della prestanza fisica di Jordan e dei suoi compagni. La sua immagine viene anzi talmente stereotipata per tutto l’arco della serie che nemmeno le ultime parole di Scottie Pippen – quando alla fine dell’ultima puntata lo definisce senza mezzi termini “il miglior general manager della storia” – sembrano riuscire a riabilitarla del tutto. Dal punto di vista della suspance l’idea di individuare un villain così preciso ha sicuramente senso in termini di efficacia della narrazione, ma tenendo conto che è praticamente l’unico personaggio a cui non viene concesso un contraddittorio, essendo morto nel 2017, diventa particolarmente difficile non storcere il naso, quantomeno da un punto di vista deontologico. Nonostante l’immagine screditata, per di più, il ruolo determinante di Krause per la riuscita delle imprese dei Bulls è lampante: è lui a volere Phil Jackson come allenatore, è lui a ingaggiare Pippen e a scambiare Horace Grant per far ripartire la squadra, lui a portare Toni Kukoc dall’Europa in un team già costruito con grande perizia, lui a puntare forte su Dennis Rodman nel ’95 (provate a immaginare un Ds capace di inserire Cassano all’interno di un contesto vincente).

Di altro tenore, e forse ancor meno digeribili, sono poi le critiche recentemente piovute dagli ex compagni di squadra; soprattutto se teniamo conto di quanto la serie perda, in questo senso, anche dal punto di vista squisitamente “artistico”. Sia Pippen che Rodman, i due maggiori co-protagonisti della serie, si sono lamentati del modo in cui sono stati riportati i fatti, in particolar modo dell’insistenza con cui sono stati evidenziati i loro limiti caratteriali. Sulla famosa emicrania di Pippen in gara 7 contro gli odiati Pistons sembrano rimanere in sospeso alcuni dubbi del tutto ingiustificabili sul comportamento del numero 33, mentre pesantissime sono le accuse – tra l’altro fieramente accettate e incassate da Scottie – di aver lasciato la squadra nel momento del bisogno nel ’95, in gara 6 contro i Knicks, quando l’ultimo tiro è stato consegnato da Phil Jackson all’”estraneo” della squadra Toni Kukoc. Di fronte a queste lacune Jordan viene dipinto invece come l’elemento imprescindibile, la conditio sine qua non per ottenere la vittoria, l’uomo capace di riportare all’ordine una squadra mai abbastanza dedicata alla sua sacra missione. Sulla sua dedizione superiore, al limite del bullismo, la serie sembra anzi dilungarsi in diversi momenti; una leadership di “nervi” che è stata però messa fortemente in discussione da Horace Grant, almeno per quanto lo riguarda personalmente, secondo cui “il 90% sono stronzate”.

Il problema, in questo caso, nonostante il ruolo risolutore di Jordan abbia attinenza col vero, è che la serie alla lunga perde un’occasione d’oro, nonostante nelle prime puntate riesca a restituirci qualcosa di unico. Guardare l’inizio di The Last Dance è a tratti un’esperienza esaltante, e non solo per l’azzeccatissima colonna sonora, ma proprio perché al centro della scena, forse per la prima volta, non troviamo solo Jordan, ma la squadra, e veniamo a sapere di più riguardo due personaggi fenomenali che non hanno davvero nessun eguale nella storia dello sport.

La storia dell’eterno numero due Scottie Pippen è in questo senso a dir poco commovente. Senza il suo micragnoso contratto, strappato seguendo un’ansia dettata forse dagli stenti patiti in gioventù in una casa sovraffollata con il padre e il fratello in sedia a rotelle, i Bulls non sarebbero mai potuti esistere per questioni di budget. Jordan su questo punto lo definisce addirittura “selfish”, per aver titubato a entrare in campo durante l’ultima stagione per futili questioni contrattuali. La profondità della sua voce e di quella del fratello toccano invece delle corde del tutto inaspettate e restituiscono un volto più umano alla storia di quei Bulls, delle ragioni più nascoste ma non per questo meno importanti per le vittorie di quella squadra. Allo stesso modo la performance giullaresca e però concentrata di Dennis Rodman, persino le sue parole stentorie e l’incapacità di trattenere le risate ricordando le proprie pazzie dell’epoca, sono in assoluto quanto di migliore ha da offrire la serie. Se osservato da vicino, se ponderato, Rodman possiede l’immagine di un vero e proprio guru, un santone queer capace di puro genio (la sua media a rimbalzi è qualcosa di totalmente irreale) ma anche di incredibile disciplina: le immagini che lo ritraggono mentre studia in VHS i movimenti offensivi degli avversari per calibrare la propria difesa hanno un che di sacro, raccontano un’America differente e con molta probabilità migliore di quella a cui siamo abituati. In generale viene spesso da pensare, ripercorrendo le puntate, che siano i sorrisi di Paxson, l’orgoglio difensivo di Gary Payton e quello offensivo di Reggie Miller, gli occhi lucidi di Steve Kerr, a dare profondità alla serie, mentre il momento topico dedicato a Michael, le cui ombre vengono nettamente diradate lungo la serie, rimane quel “break” con cui pone fine all’intervista quando la discussione inizia a indagare sulla sua notoria antipatia nei confronti dei compagni; immancabilmente giustificata dalla propria sete, inestinguibile, di vittoria.

Ed è proprio su questo punto, sul messaggio implicito che Jordan sembra aver voluto mandare a tutti, e sulla ricezione di questo stesso messaggio oggi, durante il lockdown, che The Last Dance diventa un documentario importante e in qualche modo anche diverso da come gli ennesimi encomi a MJ lo farebbero apparire. Molte critiche mosse alla serie hanno suscitato un’istintiva opposizione, a giudicare dai commenti sui social. Ma qual è la natura di questa ritrosia a scalfire anche solo minimamente la figura di Michael Jordan e la sua posizione di dominio incontrastato? Ci vuole poco a comprendere quanto la sua parabola, proprio nella sofferenza di quel “break”, porti avanti una certa volontà di potenza tutta americana. Arrivare ai livelli di Jordan significa assecondare un’ossessione intransigente, toccare vette di ingiustificabile stronzaggine: ma la vittoria giustifica i mezzi e chi non è disposto a caricarsi sulle spalle l’immagine del bastardo non sarà mai all’altezza del trono; non c’è dubbio che MJ abbia voluto far passare questo tipo di messaggio. E la verità è che questa versione di “sogno americano” negli anni è stata esportata a braccetto con l’immagine spettacolare di Air Mike come giocatore immarcabile e implacabile; un sogno che abbiamo introiettato tutti e che diffondiamo con le nostre emoticon a forma di capra rossa con il 23, quando facciamo le pulci a LeBron James e al suo record di finali perse, quando ci arrabbiamo con Durant per essersi abbassato il contratto, quando ricordiamo il tipo di dedizione che aveva Kobe Bryant. In questo senso la riflessione laterale a cui ci invita The Last Dance sembra arrivarci a sorpresa proprio dal contesto in cui abbiamo fruito della seria. Viene da chiedersi infatti se questo tipo di filosofia possa risultare oggi altrettanto attuale che negli anni ’90; se la nostalgia che proviamo riguardando quelle immagini non abbia a che fare in parte con la morte di quel sogno, in un momento in cui il bullismo è messo a nudo, nella figura di Donald Trump, e in un’epoca di fine impero. Se saremmo mai in grado di concepire un’immagine di vincente con caratteristiche diverse.

Rispondere però non è affatto semplice. La serie ci ricorda indirettamente che la storia di Michael Jordan per fortuna non è riconducibile al suo solo punto di vista, il messaggio che ci ha lasciato non è soltanto farina del suo sacco. MJ è stato anche l’atleta che non ha mai vinto senza Scottie Pippen, quello che per conquistare il primo titolo ha dovuto aspettare otto anni di carriera, il miglior giocatore della lega che si è dovuto convincere ad adottare una filosofia offensiva altruista come la triangle offense di Tex Winter. Il suo dominio del resto è circoscritto agli annali – grazie a Dio è terminato – e non avrebbe alcun valore se non fosse stato raggiunto all’interno di un contesto sportivo alimentato da grandissimi compagni e avversari, in una lega che è tra l’altro forse il prodotto più democratico che gli Stati Uniti siano in grado di esportare in questo momento. Insieme a qualche dubbio su come è stata condotta la narrazione, quindi, la sensazione che ci lascia la serie è che per continuare a ispirarci le vittorie di MJ non hanno bisogno di essere messe a paragone, la certezza che ci danno, inscalfibile, deriva proprio dalla loro inviolabilità nel tempo, che non sarebbe tale se avesse continuamente bisogno di essere rimarcata. La sua ossessione a ribadire la sua superiorità e a farsi riconoscere come il migliore non può sovrastare la storia che lo circonda. L’invito che mi sento di dare, in questo senso, è di guardare The Last Dance cercando piuttosto dietro la sua facciata, dietro il minutaggio eccessivo di Jordan, ancor più indietro del backstage, perché è lì, nonostante la perfezione tecnica del documentario e la preziosità delle immagini inedite, che si nasconde forse il suo meglio.

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