Mancini, Simeone, Mihajlović, Simone Inzaghi, Stanković, Nesta, Conceiçao, Almeyda, Sensini, e in tono minore anche Marcolin, Pancaro, Lombardo, Negro. Non credo siano mai stati fatti studi sulla conversione dei calciatori in allenatori, ma il caso della Lazio 1999-2000 mi pare difficilmente eguagliabile, e non per coincidenza. La chiara dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che Sven-Göran Eriksson è stato un vero maestro di calcio.
Dopo averlo ingaggiato nel 1997-98, la società biancoceleste gli concesse il tempo di costruire e affinare un progetto tecnico capace di imporsi, che dopo la rimonta subita dal Milan nel 1999 fu finalmente premiato dalla fortuna il 14 maggio 2000.
Come riconobbe il presidente Cragnotti nelle interviste a caldo dopo la conquista dello scudetto, quando la Lazio era a -9 dalla Juventus il mister era l’unico a crederci ancora.
Un esempio
Nel gennaio 2024 Eriksson aveva annunciato di soffrire di un grave tumore al pancreas, ormai incurabile. «Non mi rimane più di un anno di vita». Lo aveva condiviso pubblicamente con la mite franchezza che gli era sempre stata riconosciuta, propria di un uomo esemplare per come sapeva trasmettere equilibrio in ogni gesto.
Un uomo di ghiaccio, dal contegno impeccabile e di impressionante lucidità, in cui ardeva una passione smisurata per le sfide della vita. Uno che avrebbe potuto tenere corsi su come ci si devono prendere le proprie responsabilità.
Come quando nel 1982, giovanissimo allenatore dell’Ifk Göteborg, dopo tre sconfitte a inizio stagione disse al presidente e ai giocatori di essere disposto a farsi da parte, ottenne la fiducia di tutti e poi condusse quella squadra di semiprofessionisti a vincere la Coppa Uefa.
Come quando, appena arrivato alla Roma, ammise davanti a sé stesso che per allenare in Italia la fedeltà ai principi tattici della zona e del 4-4-2 in linea era meno importante del lavoro di gestione e di adattamento.
Come quando, al primo anno di Sampdoria, disse a un incredulo Mihajlović che il suo vero ruolo era al centro della difesa e non in fascia, e gli cambiò la carriera.
Come quando chiamò il facoltoso presidente del Blackburn, con cui aveva già firmato un contratto per la stagione successiva in Premier League, per comunicargli che aveva cambiato idea e preferiva inseguire il suo riscatto in Serie A sulla panchina della Lazio.
Come quando, poco dopo, chiese a Cragnotti di comprare Mancini, Mihajlović e Verón perché con loro avrebbe sicuramente vinto lo scudetto, e di liberarsi di giocatori privi della giusta mentalità come Beppe Signori, capitano, idolo e più volte capocannoniere che nel 1995 il presidente aveva provato a vendere al Parma salvo poi fare marcia indietro di fronte a una feroce sollevazione popolare.
Come quando si innamorò di una donna sposata, Nancy Dall’Oglio, e decise di dichiararlo apertamente a suo marito, il notaio Giancarlo Mazza, che davanti a lei lo ringraziò per l’onestà e gli chiese di restare amici, anche perché con Eriksson in panchina la Roma di cui era tifoso aveva giocato il suo miglior calcio.
La sua eredità
Dopo l’annuncio della malattia, Svennis è stato travolto da un affetto incontenibile, probabilmente inaspettato. E ha intrapreso un inedito, emozionante, intensissimo pellegrinaggio negli stadi del suo cuore, per raccogliere l’applauso commosso dei tifosi e gustare insieme a loro le immagini di gioie, dolori, traguardi vissuti insieme in epoche più o meno lontane. Per farsi abbracciare dai suoi ex ragazzi, quelli con cui – lo ha scritto nella sua autobiografia – era «fermamente convinto che gli allenatori non debbano socializzare», ma che gli hanno rispettosamente voluto bene – appunto – come a un maestro, una guida spirituale.
È stato un profeta della mentalità vincente, coach capace di trasmettere ai suoi calciatori spirito di squadra, autostima individuale, l’attitudine di chi guarda al futuro senza rimpianti né recriminazioni (sul tema scrisse anche un libro con lo psicologo sportivo norvegese Willi Railo).
Ma nei suoi ultimi giorni Eriksson si è concesso di contemplare il passato. Nel 2017, sulla piattaforma-forum Quora, migliaia di malati terminali risposero a chi chiedeva di dare un consiglio basato sulla loro esperienza alle persone vive e in salute: molti parlarono di come avevano ridefinito la scala delle loro priorità e riscoperto il valore degli affetti familiari, accogliendo con serenità la bellezza della vita; la maggior parte suggeriva ai sani di osare di più in nome di ciò in cui credevano. Quand’era in piena salute Eriksson, idealmente, ha sempre seguito il consiglio.
Quando il dolore ha preso il sopravvento, il suo volto ha iniziato a essere segnato dai farmaci e il suo passo si è fatto incerto e sofferente, ha potuto permettersi di tornare a calpestare l’erba campi in cui è diventato leggenda, con la tranquillità di chi guardando indietro può essere grato alla sorte e a sé stesso.
In occasione di una partita di beneficenza, Jürgen Klopp gli ha offerto per un giorno la panchina del Liverpool – Sven, seguendo le orme paterne, è sempre stato tifoso dei Reds – e Anfield l’ha ricevuto con un’ovazione.
Nell’intervallo di Benfica-Marsiglia, quarti di finale di Europa League, una dozzina di ex giocatori della squadra che allenò dal 1983 al 1984 e dal 1989 al 1992, vincendo tre campionati portoghesi e perdendo una finale di Coppa Campioni contro il Milan di Sacchi, lo hanno accolto tra gli applausi per un passillo de onor.
Poi Eriksson è stato al Gamla Ullevi, teatro dei grandi trionfi dell’Ifk Göteborg, unico club scandinavo a scrivere il suo nome nell’albo d’oro di una competizione europea. Quando conquistò la Coppa Uefa dell’82 battendo in finale l’Amburgo fresco vincitore della Bundesliga, che poteva schierare quattro futuri vicecampioni del mondo (Magath, Hyeronimous, Hrubesch, Kaltz) e che l’anno dopo avrebbe strappato la Coppa dei Campioni alla Juventus, Sven aveva solo 34 anni. Insieme a futuri protagonisti della provincia lombarda in Serie A come Glenn Strömberg (Atalanta) e Dan Corneliusson (Como), riuscì a completare uno storico treble.
Nel ricordo di quell’epoca d’oro tutto lo stadio ha omaggiato Eriksson con una sciarpata biancoblù, una gigantografia di un suo ritratto giovanile e 18.800 voci a intonare Snart skiner Poseidon, l’inno ufficiale dell’Ifk Göteborg che ne celebra il legame con la città, una ballata malinconica composta dall’artista Joel Alme dopo aver consolato una donna in lacrime durante un viaggio in treno: «Con il profumo del sale marino ricordiamo la felicità e il dolore». Eriksson piangeva a dirotto.
In questi casi incombe sempre il rischio del kitsch, ma raramente ho visto qualcosa di più commovente su un campo da calcio.
Ifk sta per Idrottsföreningen Kamraterna, «società sportiva dei compagni»; Göteborg, città portuale, ha sempre teso a sinistra, e così la tifoseria. Per di più, il padre di Eriksson era parente di Tage Erlander, primo ministro di Svezia dal 1946 al 1969, recordman assoluto di longevità al governo nella storia della democrazia parlamentare e grande socialdemocratico.
Anche se lui lo ha sempre negato, il collettivismo tattico del primo Eriksson può essere davvero annoverato tra gli esempi di calcio “socialista”.
“Italiano”
In Italia, però, lo svedese si convertì presto a un’attitudine meno filosofica, più pragmatica. E anche in Italia, naturalmente, ha raccolto l’affetto dei suoi vecchi tifosi.
Prima di un match di Serie B, la Sampdoria lo ha salutato e ringraziato nell’atmosfera delle migliori occasioni, alla presenza di tanti ex blucerchiati, in primis Roberto Mancini che lo ha accompagnato in un lunghissimo giro di campo. I cinque anni a Genova sono stati i più belli della sua vita, anche se dopo la morte del presidente Paolo Mantovani la squadra si ridimensionò e non andò oltre la vittoria della Coppa Italia e il terzo posto in campionato nel 1993-94.
Nel maggio 2024, il tour della gratitudine di Eriksson si è concluso all’Olimpico, prima dell’ultima giornata Lazio-Sassuolo. Cori, musica, video celebrativi, un suo breve discorso per ringraziare e confermare che i biancocelesti sono stati la sua squadra più forte, un giro di campo, la coreografia della Curva Nord a rappresentare una maglia con lo scudetto e la scritta Sven.
Nell’aria si respiravano le emozioni di quel 14 maggio, le ricognizioni di Collina sul campo allagato di Perugia, il gol di Calori, la tensione, la festa per uno scudetto che, prima dell’ultima giornata, solo il maestro Eriksson sapeva essere ancora possibile, a dispetto di tutto e tutti.
Tra le tante cose che il diluvio di Perugia riuscì a ripulire, c’è anche l’odiata fama di “perdente di successo” che i soliti mistificatori del racconto sportivo avevano cucito addosso a Eriksson, dopo la rimonta subita nel 1999 e prima ancora in un’altra esperienza romana.
Sven, infatti, proprio come l’artefice del primo scudetto laziale Tommaso Maestrelli, aveva alle spalle un poco entusiasmante trascorso in giallorosso. Per Maestrelli, capitano della Roma nei primissimi anni Cinquanta, lo smacco fu la retrocessione in Serie B del 1951; per Eriksson, tecnico della Roma dal 1984-85 al 1986-87, lo scudetto buttato via alla sua seconda stagione in giallorosso: la sconfitta casalinga per 2-3 contro il Lecce già retrocesso alla penultima giornata, che consegnò il titolo alla Juventus, fu un suicidio sportivo inspiegabile, su cui aleggia da sempre il sospetto di una combine da Totonero gestita male (il presidente Dino Viola ne era convinto).
Nel triennio romanista, Eriksson promosse capitano della Roma Carlo Ancelotti, di cui apprezzava l’intelligenza tattica, la grande voglia di imparare e una spiccata predilezione per il gioco a zona.
La rottura con Dino Viola si consumò quando Sven suggerì la cessione degli ormai invecchiati Conti, Boniek e Graziani e la conferma di Ancelotti, ma il presidente vendette solo quest’ultimo, giudicato troppo fragile fisicamente. Ad acquistarlo fu il Milan, che vinse tutto con Sacchi in panchina: una panchina che in un primo momento Berlusconi aveva deciso di assegnare a Eriksson, salvo rinunciare per non fare uno sgarbo a un uomo potente come il senatore andreottiano Viola. «Con Sacchi, il Milan vinse due volte la Coppa dei Campioni. Ma vinse il campionato solo una volta. Se avessi avuto l’opportunità di guidare il Milan al posto suo, credo che li avrei vinti tutti», scriverà Sven con un raro eccesso di autostima.
I destini di Eriksson e Ancelotti si sono intrecciati solo tanti anni dopo, e in modo completamente diverso. E se Carlo Magno, nonostante l’inciampo del 14 maggio 2000 sulla panchina della Juventus, è diventato l’allenatore più vincente del mondo, lo si deve forse a quel po’ di saggezza svedese assorbita dal primo maestro, con cui ha saputo stemperare il furore ideologico della scuola di Fusignano.
* Questo testo è tratto da“1-0 Calori”, in uscita il prossimo ottobre con Milieu