Questi ragazzi erano figli della guerra. Avevano le gambe grosse e il cervello fino, erano la fotografia di un’Italia che (purtroppo) non esiste più. Arrivavano dalle valli, dall’Italia contadina, dalle province lontane, dalla nebbia: molti dal Lombardo-Veneto, dal profondo Nord, dalla Toscana, dalle viscere del Paese. Potevano vantare nomi risorgimentali, desueti: uno di loro teneva viva la memoria di Garibaldi, un altro era stato persino battezzato con il drappo rosso della Comune di Parigi.
Questi ragazzi erano un insieme impressionante di felici anomalie. Hanno portato il primo scudetto al Sud nella storia del calcio, ma uno solo di loro era un figlio del Sud. Quasi tutti diventeranno sardi, ma nessuno di loro all’anagrafe lo era. Arrivava da storie belle ma complesse che sono la biografia di quel Paese oggi perduto: collegi, orfanotrofi, lavori precoci, seminari e – addirittura – vocazioni mancate o interrotte. Ognuna di queste biografie, come vedrete, è un concentrato di racconto e messa su carta prende immediatamente il sapore del romanzo di formazione.
Arrivavano tutti dall’Italia del lavoro. Qualcuno da bambino stava dietro il banco di una macelleria, qualcun altro, poco più che adolescente, timbrava il cartellino in fabbrica, o addirittura in fonderia, uno di loro è cresciuto ai tavoli di un’osteria. Queste storie fanno impallidire il mondo di panna montata, i campioni liftati che si fanno la ceretta alle sopracciglia, sponsor e diritti miliardari del calcio del secondo millennio.
Molti avevano visto l’Italia occupata dai tedeschi, conosciuto il fragore delle bombe, il buio dei rifugi, la fame, e se erano nati dopo il 1945, avevano incubato nelle pance delle madri l’angoscia primigenia del conflitto. Il loro allenatore era di poco più grande, perché aveva dovuto interrompere troppo presto la sua carriera: era un uomo colto che aveva idee moderne, diverso da tutti – soprattutto in quel mondo e in quel tempo – e che per questa diversità era stato anche cacciato in mo modo, ben due volte, prima di quel trionfo.
Il più anziano di questi ragazzi era nato nel 1937, il più giovane nel 1946, aveva l’età della nostra Repubblica. Uno di loro veniva dal Brasile, credeva alla magia ed era stato riserva del più forte dei giocatori del mondo.
Questi ragazzi hanno ancora oggi profili e caratteri che sembrano scolpiti nella pietra, giocavano con i quattro mori cuciti sul petto (e tatuati nel cuore), e assorbirono dalla terra che li ospitava una durezza nuragica che non li abbandonerà mai. Era una generazione che aveva dovuto crescere in fretta: al lavoro appena possibile, i soldi a casa, tieni alto il nome della tua famiglia. Avevano i valori e il rigore, inscritti come un codice dentro il Dna. Uno solo di loro poi diventerà ricco (ma non con gli scarpini ai piedi). Uno di loro – il più famoso – prenderà il nome di un eroe mitologico, diventando una leggenda in vita: sarà l’uomo che ha fatto più goal nella storia della maglia azzurra, per fermarlo dovranno spezzargli le gambe.
Questi ragazzi, in un anno che segna un passaggio di epoca, diventeranno campioni, ma nessuno in quel momento si accorge che sono la sintesi di una storia d’Italia, nell’anno in cui la nazione perde la sua innocenza ed entra nel tunnel degli anni di piombo. Per tutti loro il calcio è più che un me- stiere, molto più che un gioco, in ogni caso una possibilità di riscatto. Qualcuno di questi ragazzi oggi ci ha lasciato, gli altri hanno tutti i capelli bianchi: forse avrebbero potuto perdersi, probabilmente avrebbero potuto vincere di più, ma insieme hanno realizzato un’impresa che riesce a pochi: trasformare un sogno in realtà, lasciare questa traccia indelebile nel loro tempo. Uno scudetto, e una storia bellissima. Questa.
Cosa fu, dunque vincere quel campionato 1970? Una impresa impossibile. Contro tutto e tutti, contro ogni logica, contro ogni compatibilità economica, e persino contro il tempo. Provate a immaginare il contesto. Una squadra arrivata dalla serie B in massima serie solo nel 1964, con un telaio di giocatori di categoria che si sono forgiati in questa impresa, rinforzata con nuovi acquisti che per un motivo o per un altro gli altri, i grandi club, avevano considerato talentose “seconde scelte”. Mario Martiradonna, Pierluigi Cera, Greatti Gigi Riva e Adriano Reginato venivano dalla serie B. Nené era stato considerato “Non da Juve”. Cesare Poli, Sergio Gori e Persino Angelo Domenghini erano stati barattati come merce di scambio più soldi, con l’Inter per il gioiello del mercato 1969 (Roberto Boninsegna, colpo dell’anno). Ricky Albertosi, Mario Brugnera ed Eraldo Mancin erano stati addirittura “cacciati” dalla Fiorentina per motivi disciplinari e il portierone – incredibile a dirsi – era stato considerato “troppo vecchio” (arriverà a vincere lo scudetto della stella con il Milan negli anni ottanta!). Giulio Zignoli era una comproprietà con il Milan, Nastasio era stato preso come “riserva”.
Ma questa squadra invece era stata assemblata con intelligenza e calcolo, il colpo del mercato 1969 non lo aveva fatto l’Inter, ma il Cagliari. A disegnare la strategia era stata società attenta con un vicepresidente abilissimo sul mercato, Andrea Arrica, e – soprattutto – un mister moderno, che – come gli allenatori inglesi del calcio contemporaneo, era molte cose insieme: uno psicologo, un motivatore, un talent scout. Si chiamava Manlio Scopigno, ma tutti lo chiamavano “il filosofo”, per le sue buone letture. Intorno a questo pianeta Cagliari – però – c’è molto di più. Una regione che cresce e si muove, il vento della storia: la Sir, la Saras, l’Unione Sarda e la Nuova Sardegna, la chimica, l’informazione, l’industria, l’altra faccia di una regione che sta crescendo, e molto in fretta.
E poi c’è un mondo che cambia velocissimo. Il 1969-1970 è un biennio che cambia il mondo e, e ovviamente l’Italia: è la stagione in cui finisce l’innocenza (con la strage di piazza Fontana), è l’anno dello Statuto dei lavoratori, è l’anno del Divorzio e persino – cosa che segnerà la carriera extracslcistica di Greatti – quello delle assicurazioni obbligatorie. L’Italia uscita distrutta dal dopoguerra è diventata con il boom un paese più ricco, più sicuro, più libero. Il più importante degli spiriti che animano questo tempo – la libertà – grazie a Scopigno diventa una delle caratteristiche distintive di questo Cagliari. Tutti i futuri campioni raccontano lo stupore che si provava nel provenire dal calcio delle caserme, dei ritiri blindati, dei tanti vincoli inutili, delle cessioni al buio, ed arrivare in una squadra in cui si otteneva il regalo più grande: l’autoresponsabilizzazione.
Un modo di guidare la squadra sintetizzabile in una delle tante battute di Scopigno che, alla vigilia dell’ultima partita (la vittoria matematica c’era già stata in casa, con il Bari, nella storica data del 12 aprile) aveva detto: “Ricordatevi di venire venerdi, a Torino, che domenica dobbiamo giocare”. Vinsero quattro a zero. Quel Cagliari, poi, era anche innovazione tattica: il falso nueve e il libero davanti alla difesa. Avrebbero potuto già vincere nel 1968 (quando erano stati campioni d’inverno), avrebbero dovuto vincere nel 1971 (quando erano partiti a razzo), ma questa vittoria rimase unica, una fiammata, un evento irripetibile. Già nella stagioni successiva la sorte maligna, un terribile intervento di Hof su Riva – tibia e perone – lo sconforto, la cessione di alcuni giocatori-chiave, impedirono il bis, smontarono la rosa dei miracoli. L’ultimo segreto del Cagliari, che salta all’occhio leggendo queste biografie, è che i rossoblù furono un’altra anomalia: una squadra-famiglia. Vita comune, storie di foresteria, lutti compensati nella solidarietà, spirito di sacrificio. Una regione un po’ magica, che ti adotta come una nuova madre.
Erano ragazzi, ma avevano tutti alle spalle biografie intensissime. Ecco perché queste vite, Insieme, diventano un racconto corale, come nella più straordinaria ballata che ha cantato i campioni. Tra i tanti inni scritti per celebrare l’impresa, infatti, uno resta inciso come nella pietra di granito, svetta sugli altri, ed è una struggente cantata per voce, fisarmonica e chitarra. L’ha composta Serafino Murru, «l’usignolo d’oro di Ozieri» e si intitola: a “Lo scudetto in Sardegna”. Questo canto diventó un 45 giri che avrà un successo inimmaginabile in tutta Italia: “Han paura in Continente! Arriva il gladiatore, han paura in Continente di Riva il mattatore!”.
Dirà uno degli attori più famoso del tempo, Raf Vallone: Ognuno di noi almeno una volta nella vita si è trovato nella condizione del Cagliari di quest’anno, ovvero quella di andare a trovare nella casa l’avversario più forte, più agguerrito, e più potente più autoritario e di sfidarlo a viso aperto, gridagli in faccia le sue ragioni. Chi di noi non ha sognato questo, sia nel campo del lavoro sia non altri campi?”. Secondo Vallone quella vittoria diventava per questo una metafora: “Questo racconto simbolizza una condizione umana che va al di di lá del calcio. Ecco perché per questo Cagliari hanno tifato non sono gli sportivi ma anche delle persone che non si sono mai occupato di calcio”.
Questa storia è una collezione di aneddoti, e persino sentenze, che quando le rileggi sembrano scritti o immaginati per finire in una antologia di massime, ma che invece nascono nel fuoco della battaglia, come battute, come sedimenti densi di una narrazione orale. Questa è una raccolta di memorie che non scoloriscono: un album particolare, fatto di campioni senza medaglie di latta sul petto, e senza saldi a nove zeri nel conto in banca, quando il denaro ancora si contava in lire. Questa è una storia ambientata nel calcio, ma non è una storia di calcio. È una storia di uomini. È la storia di un’impresa, un piccolo grande apologo sull’imponderabilità del destino. Ecco perché, ancora oggi, questa storia è lezione.
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