Peppino Meazza e l’Italia dei balilla
Basterebbe il nome del personaggio cui è intitolato per dissuadere i sedicenti rinnovatori del nostro calcio dall’idea di abbattere San Siro per costruire non si è ancora ben capito cosa. Basterebbe fermarsi a riflettere su chi sia stato Giuseppe Meazza, il milanesissimo Peppìn di Porta Vittoria, scomparso esattamente quarant’anni fa, per ripensarci.
“Il balilla”, come venne chiamato dal giorno in cui l’allenatore dell’Inter, Árpád Weisz, decise di schierarlo dal primo minuto, suscitando l’ilarità del compagno di squadra Leopoldo Conti (“Adesso facciamo giocare anche i balilla!”), fu infatti il campione che il fascismo esaltò e dietro al quale si fece scudo negli anni del consenso, quando servivano eroi popolari da innalzare sugli altari per ravvivare il gradimento dell’opinione pubblica.
Il Peppìno Meazza era un campione d’altri tempi, eppure modernissimo: uno che avrebbe fatto la fortuna anche delle grandi di oggi, tanta era la sua grinta, la sua abilità palla al piede e il suo dirompente carisma, capace di fare sempre e comunque la differenza.
Senza contare la sua modernità anche nell’essere un personaggio, diremmo quasi un divo, con quell’aria da Rodolfo Valentino, una bellezza autentica che mandava in visibilio le donne e persino una canzone dedicata che recitava: “La donzelletta vien dalla campagna / leggendo la Gazzetta dello Sport / e come ogni ragazza / lei va pazza per Meazza / che fa reti a tempo di fox-trot”.
Con la classe che si ritrovava, avrebbe fatto faville in ogni epoca, dentro e fuori dal campo, suggerendo a qualunque uomo politico di puntare sul suo talento e sulla sua popolarità per fini propagandistici, a dimostrazione che la stagione dei social ha solo amplificato una tendenza di sempre, con i suoi pregi (pochi) e i suoi difetti (immensi).
E invece gli è toccato in sorte di nascere negli anni dei pionieri, quando ancora non esisteva il torneo a girone unico, nato nel ’29, novant’anni fa, e subito egemonizzato dalla sua Ambrosiana Inter, prima di lasciarsi sedurre dalle lusinghe di pretendenti non meno agguerrite come la Juve della famiglia Agnelli e il Bologna del pittoresco presidente Dall’Ara, artefice dello “squadrone che tremare il mondo fa”.
Probabilmente, ha vinto meno di quanto avrebbe potuto ma di sicuro è stato un punto fermo di una Nazionale che poteva contare su altri fuoriclasse come Schiavio e Piola, non certo inferiori al Peppino Meazza, e persino su uno studente universitario di origini friulane, Annibale Frossi, soprannominato il “dottor sottile”, tutto occhiali e faccia da bravo ragazzo, che a Berlino, nel ’36, si trasformò in un leone, regalandoci il nostro primo e unico alloro olimpico.
Peppino Meazza fu il primo, vero fuoriclasse del calcio italiano, probabilmente superiore, dal punto di vista tecnico, al pur eccezionale “Farfallino” Borel, suo contraltare juventino, anticipando il mito di Valentino Mazzola e dell’ungherese Puskás, di cui si diceva, non a torto, che avesse le mani al posto dei piedi.
Infine, dopo aver salvato l’Inter del presidente Masseroni dalla retrocessione, indossando i panni dell’allenatore-giocatore, nel ’47, capendo di non poter più competere ai massimi livelli, disse basta, mentre un giovanissimo Giampiero Boniperti cominciava a far parlare di sé in maglia bianconera.
Rimase, tuttavia, nell’Inter, facendo da chioccia dapprima al toscanaccio Benito Lorenzi, detto “Veleno” per il suo carattere estremamente vivace e per i suoi atteggiamenti non proprio signorili nei confronti degli avversari, e poi al figlio di capitan Valentino, futura icona nerazzurra e della Nazionale. E quarant’anni fa, in un giorno d’agosto, appese la vita al chiodo a soli sessantotto anni. Tutto ciò che doveva fare l’aveva fatto, con la furia e l’ardore di chi, per sua natura, non poteva chiedere permesso, neanche alla morte.
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