La verità è che in Spagna Paolo Rossi non ci sarebbe dovuto nemmeno andare. Troppo fresca era la macchia del calcio scommesse, troppo l’ombra della squalifica appena scontata, c’erano dubbi enormi sul suo recupero sul piano fisico, e – come si vide nelle prime partite – non erano nemmeno infondati. La Juventus lo aveva comprato mentre ancora non aveva finito di scontare la sua pena, e quell’anno (per la seconda volta consecutiva) il capocannoniere era stato Roberto Pruzzo, bomber della Roma, in forma strepitosa, partner perfetto di Bruno Conti. Poi si disse che Enzo Bearzot aveva scelto comunque di puntare sul “blocco juve” e – mentre le figurine con Pruzzo in maglia azzurra erano state già stampate – arrivò la convocazione per questo centravanti riadattato (in origine era un’ala), gracile, controverso, e la polemica esplose nei bar.
L’Italia partì malissimo, tre partite tre pareggi, rischiava di non passare il turno, Rossi non decollava, e l’uno a uno con il Camerun di Roger Milla, sospettato di essere un “biscotto”, divenne oggetto di una famosa querelle e di una inchiesta giornalistica di Oliviero Beha. In porta c’era un quarantenne, Dino Zoff. In panchina un friulano con la faccia da saggio e la pipa, Enzo Bearzot. Per gli azzurri sembrava finita lì, e invece – dopo quel passaggio di turno – cambiò tutto solo due mesi dopo, l’Italia era campione del mondo, Paolo Rossi il mattatore assoluto e il capocannoniere del Mondiale.
Il gracile miracolato era diventato il campione risorto che avrebbe scritto il libro “ho fatto piangere il Brasile”, il mattatore delle due storiche partite a eliminazione diretta: quella contro l’Argentina di Diego Armando Maradona, e quella contro il Brasile di Zico, Socrates e Toninho Cerezo. Incredibile esito di una biografia: in quei giorni caldi e felici l’ex squalificato con infamia (“Non avevo il coraggio di guardare mio padre negli occhi”) divenne per incanto “Pablito”. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini volò al Bernabeu, si sollevò i pantaloni dopo il goal e alzò la coppa. Sull’aereo presidenziale, al ritorno, giocò a scopone con gli azzurri. Il fascino della storia di Rossi è tutto qui, ma è potente.
Il ribaltamento assoluto, la resurrezione, la furbizia dell’attaccante che corona con una tripletta la vittoria con il Brasile: vola di testa, si infila tra i giganti della difesa carioca, danza, come scrisse Giorgio Tosatti “in un impasto di Nureyev e Monolete”. Ero bambino, Rossi mi era stato antipatico, mi divenne simpatico. Poi giocò ancora in bianconero, poi al Milan, poi gli ultimi brandelli di mito al Verona, ma tutta la storia era chiusa in quel mondiale, un pugno di partite da urlo, Pablito.
La verità è che il mondiale di Spagna, “il mondiale di Paolo Rossi” fu molte cose insieme. Il primo mondiale a colori per il nostro paese (fino a quello di Argentina a livello di massa eravamo ancora in bianco e nero), il primo raggio di sole dopo la notte degli anni di piombo. Il mondiale portò fama, turisti, simpatia per l’Italia e persino quattro punti – così si scrisse – di prodotto interno lordo. Finivano di essere cenerentola, tornavano campioni, vincevano in finale con i tedeschi.
Paolo Rossi fu parte decisiva di questa storia, un simbolo della leggerezza astuta e italiana, una possibile declinazione della nostra identità. Se ne va dopo Maradona, una generazione di simboli controversi e folgoranti che abbandona la partita prima del tempo. E che continua a giocare su un altro campo.
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