Sinisa Mihajlovic non era un uomo dalle parole dolci, anche se – come ha ammesso lui stesso – con la malattia era diventato più emotivo e riflessivo, più paziente, caratteristiche che non lo hanno accompagnato durante la sua carriera da calciatore e da allenatore. Però è sempre stata una persona di carisma, capace quindi a modo suo di trasmettere emozioni. Anche molto forti, come dopo la lettera scritta ai tifosi del Bologna in seguito al suo esonero dopo l’annuncio della leucemia: “Non sono mai stato un ipocrita, non lo sarò neanche stavolta: non capisco questo esonero.
Lo accetto, come un professionista deve fare, ma ritenevo la situazione assolutamente sotto controllo e migliorabile. La mia avventura a Bologna non è stata solo calcio, non è stata solo sport… E’ stata un’unione di anime, un camminare insieme dentro un tunnel buio per rivedere la luce. Ho sentito la stima per l’allenatore e quella per l’uomo. Il vostro calore mi ha scaldato nei momenti più difficili. Ho cercato di ripagare tutto questo affetto con il mio totale impegno e attaccamento alla maglia: non risparmiandomi mai sul campo o da un letto di ospedale”.
Da allenatore ha potuto pesare e trasmettere quello che ha imparato in campo da giocatore, dove ha lasciato il segno alla Lazio, alla Sampdoria, all’Inter. Il suo destino legato a quello che succedeva nella sua terra d’origine, la ex Jugoslavia, del quale è stato il calciatore più pagato nella storia. Nazionalista, era amico di Zeljko Raznatovic, “la tigre Arkan”, ultras della Stella Rossa. Alla sua morte disse: “Ha fatto cose orrende, ma non rinnego un amico”. Un nazionalismo che lo ha visto sempre sostenere che il periodo migliore sia stato quello della Jugoslavia di Tito. Un carattere fumantino che in campo gli permetteva di rendere al meglio e che poi si traduceva in grande lealtà dopo il 90’.
Esemplificativo quanto accaduto una volta con l’ex Arsenal Patrick Vieira: “Mi ha chiamato zingaro di m. e io gli ho detto negro di m., ma poi siamo diventati amici: certe cose devono restare in campo”. Al Corriere dello Sport raccontò i suoi metodi per tenersi concentrato: “Avevo bisogno di un nemico per rendere al massimo. Mi preparavo a dirgli di tutto nel campo per farlo incazzare e quindi per incazzarmi io”.