Ricordando Marco Pantani
È uno dei personaggi forse più controversi della recente storia sportiva italiana. Quando pensano a lui, molti fanno riferimento alla tragica morte avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite, alla polemica sull’ematocrito troppo alto a Madonna di Campiglio, alla squalifica per doping, alla depressione e alla dipendenza dalla cocaina.
Chiunque si lasci convincere da questa associazione di pensieri fa un torto alla memoria dello sport e, soprattutto, a se stesso. Perché no, Marco Pantani non era solo il ciclista dannato che ha lasciato questa terra troppo presto, schiacciato dal peso enorme di accuse che gli hanno aperto le porte del baratro. Marco Pantani era ed è ancora oggi l’atleta che è riuscito a valicare i confini del ciclismo, dello sport, dell’Italia, per diventare altro.
Il Pirata – lo chiamavano così per quella bandana, quell’orecchino e quel pizzetto che tanto lo facevano sembrare un corsaro, soprattutto quando scattava in salita quasi senza mostrare fatica – si è presto trasformato in un simbolo. È colui che è riuscito a rendere nuovamente popolare il ciclismo, un tempo sport principale del nostro Paese, surclassato poi dal pallone e dal campo rettangolare.
Nei pomeriggi del 1998, l’anno della magica doppietta Giro d’Italia–Tour de France, migliaia di appassionati restavano incollati davanti allo schermo ad ammirare un ragazzo che sembrava scomparire su quella bicicletta. In lui vedevano un nuovo Fausto Coppi. E il giorno dopo si riversavano in strada con le loro tute, gli occhiali da sole e la voglia di condividere con il Pirata la gioia faticosa della salita.
Tutti si sentivano un po’ Marco Pantani. Qualcuno esibiva persino improbabili bandane. Ma soprattutto, anche chi prima non si interessava di pedali e due ruote, scatti e fatica, iniziava a pensare che forse, appena possibile, una bicicletta conveniva comprarla.
Marco Pantani è stato questo e molto di più, è stato insieme uomo e mito, con punti di forza e ombre. Ombre che lo hanno travolto proprio quando era all’apice della carriera, fagocitandolo in una spirale che, alla fine, se lo è portato via il 14 febbraio 2004, a soli 34 anni, mentre soggiornava al residence “Le Rose” di Rimini.
Dopo due processi, il secondo aperto su richiesta della famiglia, il verdetto della Cassazione è stato chiarissimo: “ingestione volontaria di cocaina” mischiata a psicofarmaci. Impossibile ricostruire qui tutti i passi dell’indagine: la verità giudiziaria del caso Pantani parla di un’overdose dovuta a un massiccio consumo di droga, sei volte superiore alla dose considerata letale.
La mamma Tonina Belletti però non si è mai arresa: “Conoscevo molto bene mio figlio e le sue abitudini. Da subito ho detto che me lo hanno ammazzato ed ora ne sono ancora più convinta. La mia battaglia continua per la verità. Gli esami sono stati manomessi: purtroppo mio figlio dava fastidio. C’era molta invidia perché tutto quello che toccava diventava oro. Marco era demoralizzato per quello che stava accadendo, ma la depressione è tutta un’altra cosa”.
Negli anni, i tifosi si sono divisi e continuano a discutere sul caso Pantani. La verità assoluta, forse, non si saprà mai. Ciò che è certo è che il Pirata se n’è andato il 14 febbraio 2004. E da allora, per tanti appassionati, San Valentino non è più stato lo stesso.
Marco Pantani | Gli inizi
Nato a Cesena il 13 gennaio 1970, Pantani iniziò la sua vita da sportivo nel calcio. Ala destra: amava già le sgroppate, ma forse il campo era troppo pianeggiante. Per gioco, un giorno salì sulla bicicletta della mamma Tonina: una bici da donna, vecchia e pesante, con cui si unì ai coetanei del club Fausto Coppi di Cesenatico, che si allenavano lì vicino a casa sua. Aveva 11 anni e non sfigurò per niente.
Da quel giorno, il ciclismo fu per lui una folgorazione. Mosse i primi passi nel professionismo, ma ben presto rimase vittima di alcuni incidenti: nel 1986 venne investito da un camion (rimase in coma per un giorno), mentre qualche tempo dopo andò a sbattere contro una macchina, riportando molte fratture.
Nel 1993 arrivò il primo Giro d’Italia da professionista. Pantani iniziò a mostrare a tutto il paese le sue abilità da scalatore.
Il successo
Due anni dopo, al Tour cui si era iscritto dopo il forfait al Giro (a causa di un altro incidente con un’auto durante un allenamento che gli costò la frattura di tibia e perone) conquistò la sua prima Alpe d’Huez con una fuga di oltre 40 chilometri ed un attacco a 13 chilometri dalla vetta.
Fu l’inizio della leggenda, nonostante il destino a volte si metta di traverso: nel maggio 1997 un gatto bianco gli attraversò davanti sulla discesa del valico di Chiunzi (Salerno): Pantani cadde, a fine tappa dovette lasciare il Giro.
Ma la consacrazione era dietro l’angolo: il 1998 fu l’anno della doppietta maglia rosa-maglia gialla. Lui, scalatore in uno sport di passisti, era riuscito a portarsi più avanti di tutti. Dominando in lungo e in largo per un’intera stagione.
Marco Pantani | Il declino
La parabola del Pirata assunse però un andamento discendente nel giugno 1999. Durante il Giro, Pantani diede spettacolo ai piedi del santuario di Oropa, sull’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio. Poi, alle 7.25 di sabato 5 giugno 1999, il controllo antidoping e il valore sballato: ematocrito al 52%, contro il 50% del limite massimo concesso.
Fu l’inizio della fine. E la anticipò lui stesso: “Non sono dopato, ho la coscienza pulita. Mi sento stritolato in un sistema che non riesco a comprendere. Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo”.
La squalifica durò soli 15 giorni, ma lui rimase chiuso in casa per molto di più. Rifiutò di iscriversi al Tour, cercò vie d’uscita in amicizie sbagliate, poi la spirale della cocaina. Pantani si trasformò in un eroe della solitudine, si allontanò dal ciclismo. Provò a tornare nel 2000, ma al Tour non riuscì a raggiungere i suoi soliti livelli, nonostante siano ancora negli occhi degli appassionati alcune tappe nelle quali mise in difficoltà il futuro vincitore Lance Armstrong, anch’egli coinvolto successivamente da uno scandalo doping.
La depressione, in quegli anni, fece il resto: l’immagine del Pantani sportivo si disperdette tra accuse, polemiche e psicofarmaci. Fino al tragico epilogo di quel maledetto San Valentino di sedici anni fa.
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