Doping dopo Armstong Cipollini
“Cipollini: un mito in pezzi”. Il titolo della “gazzetta dello sport” di sabato 9 febbraio rende non più prorogabile per “A tutto campo” una riflessione sul doping. Data la vastità del tema e il nesso con l’attualità, ci concentreremo su una delle discipline più esposte, il ciclismo.
L’inchiesta del quotidiano sportivo milanese porta le prove del rapporto fra Mario Cipollini e l'”azzeccagarbugli” spagnolo Fuentes, figura centrale dell’Operacion Puerto, proprio nella sua stagione trionfale, il 2002. Dopo Lance Armstrong, quindi, un nuovo campione del ciclismo degli anni Novanta/Duemila entra nell’occhio del ciclone. Tuttavia, come ha correttamente sottolineato il direttore Andrea Monti nel suo condivisibile editoriale, “non è una sorpresa“. Non si tratta (come invece hanno titolato molti media) di uno shock, ma di un dato ormai storicizzato; in quel ventennio infatti un numero elevato di atleti ha fatto uso di ormoni, trasfusioni ed epo.
Un paio di anni fa uno studioso di Doping, con diverse conoscenze nella WADA, mi confidò che rispetto agli anni Novanta, con l’introduzione del passaporto biologico si è scesi “dal 99 al 70% di atleti dopati in gruppo”. Questi dati rivelerebbero anche il fallimento di una lotta al doping, costretta sempre a rincorrere, ma poco attenta a prevenire.
Nel discorso mediatico degli ultimi mesi, poi, sembrerebbe quasi che solo la generazione degli anni Novanta/Duemila abbia fatto uso di sostanze dopanti quando è evidente il contrario. Nel 1924, nel celebre articolo “I forzati della strada”, i fratelli Pélissier e Maurice Ville denunciarono al giornalista Albert Londres le sostanze che erano contretti a consumare per completare il Tour de France: “Questa è cocaina per gli occhi, e questo è il cloroformio per le gengive … E le pillole? Vuole vedere le pillole?”
Così invece parlava Fausto Coppi “Per me, se trovassi, d’accordo con un medico di fiducia, qualcosa che mi facesse andr più forte senza che il mio fisico subisse danni non esiterei a servimene … c’è chi fa anche tre cure in un anno di stricnina. Un dottore è sempre alle spalle quando si fanno cure del genere. E c’è chi le fa e non vince quasi mai!”. Proseguendo con la carrellata storica, nella sua biografia Laurent Fignon ha ammesso di aver fatto uso di sostanze dopanti nel corso della sua carriera, mentre dalle testimonianze di Sandro Donati emerge come nel record dell’ora di Francesco Moser sia stata importante la presenza del dottor Conconi, esperto in emotrasfusione.
Se si decidesse di cancellare dall’albo d’oro (come fatto per Armstrong al Tour) tutti coloro che hanno ammesso pratiche dopanti dovremmo forse cancellare un secolo di storia del ciclismo. Ma non è questo il punto. Non è criminalizzando gli atleti che si potrà combattere efficacemente questo fenomeno, anche se è evidente che Armstrong, Basso e Cipollini facciano vendere più copie di Fuentes, Conconi e Ferrari. Se così tanti atleti (e non solo quelli d’élite) adottano queste pratiche vuol dire che il problema sta altrove.
Chi sono i medici che hanno permesso agli atleti di adottare pratiche sempre più sofisticate? Quali sono i reali rischi per la salute? Perché le federazioni nazionali hanno troppo spesso coperto? Chi all’interno di esse ha avuto questa responsabilità? Perché le federazioni internazionali hanno protetto i rispettivi sport? Perché alcuni casi sono emersi subito e altri no? Che ruolo hanno svolto gli interessi economici e gli sponsor? Quanto incide nella spinta a doparsi il fatto che nel discorso mediatico conti solo la vittoria o la medaglia? Quali sono le case farmaceutiche che producono queste sostante? In quali paesi? E perché è consentito loro?
Tutte queste domande dovrebbero essere costantemente approfondite da un mainstream mediatico che invece preferisce portare il campione alle stelle, sfruttarne acriticamente il suo successo, e poi farlo sprofondare nel caso in cui emergano ombre sul suo successo. Il problema poi non si limita solamente allo sport, poiché viviamo in una società in cui l’uso di sostanze stupefacenti (non solo ricreative ma anche legate alla performance) è estremamente diffuso: dalla rockstar, all’operaio passando per lo studente. E allora per concludere riprendiamo un pensiero, forse un po’ naïf di Fausto Coppi: “Se si vuole fare la guerra a certi prodotti perché considerati nocivi, se ne vieti la produzione”.
Come direbbe il suo grande rivale Gino Bartali “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!“
La citazione sui fratelli Péllisier è tratta da: D. Marchesini, L’Italia del Giro d’Italia. Quelle su Coppi da: R. Negri, Parla Coppi.
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