Non sono venuto a difendere Maradona, ma a seppellirlo. Sono passati tanti anni, eppure lo ricordo come fosse adesso. Avevamo vinto il primo scudetto e mia madre, settantenne e fino ad allora totalmente digiuna di calcio, mi disse: “Vorrei mandare un telegramma a Diego…”. Persino lei lo chiamava così. “E che gli vuoi scrivere?”, le domandai. E lei: “Che per me è come un figlio!”. Rimasi sbalordito, ma in quel momento compresi che cos’era Diego per Napoli: tutto. Un figlio, un padre, un amico, un fratello. L’artefice di un riscatto atteso da tremila anni. L’interprete di un sogno eterno. E un sogno sembrò a me, quando alle cinque del mattino, miracolosamente in semi incognito, lo riconobbi che usciva dall’aeroporto di Capodichino e lo chiamai senza neanche rendermi conto di quello che facevo: “Diego!”. Lui si voltò, alzò il braccio. Mi salutò come se mi conoscesse, poi sparì in un macchinone, scortato da due tre figuri tre volte lui.
Se visiterete questa città fra cent’anni, ci sarà una sola differenza rispetto ad ora. Anzi due. Nei vicoli, le immagini di Maradona, i murales e le statuette natalizie dedicate a lui, saranno dieci volte di più. E lo stadio San Paolo avrà cambiato nome. Anzi, vogliamo essere ottimisti: ce ne sarà uno nuovo (altri cent’anni dovrebbero bastare…), e si chiamerà Maradona Stadium. Un nome da fare impallidire qualsiasi tempio del pallone. Sarà così perché Napoli, la più infedele delle città, a Maradona resterà nei secoli fedele. Perché è stato un amore a prima vista. Perché è stato un riconoscersi, un reciproco e fatale adottarsi. Un sodalizio folle che, come un’immensa rete a strascico, ha raccolto e s’è portata dietro tutto il bene e tutto il male possibile. Oggi, all’arrivo della terribile notizia, la città intera s’è messa a lutto. E sembra quasi più composta. Persino più silenziosa.
A portarlo qui non fu un blitz geniale di Ferlaino e di Juliano, ma il Fato. Napoli era l’unica città che poteva accoglierlo e comprenderlo. Perché lui è un brigante, un eterno partigiano, e con quello spirito sbaragliò la Juve. Un Masaniello, un incazzato, uno che ce l’aveva con tutto e con tutti, ma che al tempo stesso aveva amore da vendere. La gente s’è innamorata a prima vista: di lui, del genio del pallone, del Dio del calcio, certo, ma anche del ragazzo insicuro, dell’uomo che non riusciva a vivere, del miliardario che si rovina senza ragione, dell’atleta che si sballa e ingrassa. Ma che, per scendere in campo, dove i difensori-macellai di quel calcio per duri lo massacravano, non esitava a farsi fare infiltrazioni a ogni partita: sprecone con tutto, pure con le proprie rotule e caviglie. Anche Napoli è così. Ti ama, ti porta in cielo e poi sperpera e distrugge tutto. A volte ti uccide. L’amore, la follia, la droga, la camorra… Maradona, anzi Diego, è stato una sintesi di tutto il repertorio: di San Gennaro e del Vesuvio, dei boss del camorra e del ventre-cuore di questa città meravigliosa e sventurata. Una sintesi esplosiva.
Un solo avversario l’ha sconfitto. Come in un racconto di Edgar Allan Poe, ha duellato con se stesso, e ha perso. Pelé è stato un campione e un simbolo del politically correct: ma è proprio questo che fa di lui un Salieri. Maradona non avrebbe mai potuto essere un cortigiano, e come in un racconto biblico, all’angelo più bello è toccato in sorte l’inferno. Perciò rassegnamoci, e teniamoci il nostro dolore, senza cercare di decifrare un personaggio così enigmatico. Quella di conoscere l’uomo Maradona è solo un’illusione. Conosciamo la sua sregolatezza, i suoi errori, i suoi eccessi e i suoi slanci di generosità, ma tutto questo non è che la punta dell’iceberg. L’enorme montagna capovolta sta sotto la superfice, e resta un mistero. Si dice che la sua incapacità di gestire una popolarità che ha superato quella di un Papa è stata la sua rovina. Ma chi ci sarebbe riuscito?
Dietro quegli occhi a volte spenti e imbambolati, dietro l’immagine di quell’uomo che s’addormentava allo stadio, sugli spalti, durante la partita, dietro le vicende surreali di quell’obeso che si lasciava sorprendere dal fuoco amico di cellulari che lo immortalavano a tradimento mentre ballava con la palpebra cascante e il sedere mezzo fuori, non c’era lussuria, ma solitudine e disperazione. Tutto nella sua vita è stato contraddizione. Popolare come una rock star, da rock star è morto. Ma adesso è tempo di voltare pagina: dimentichiamo i pettegolezzi e gli scandali e intitoliamo a lui lo stadio di Napoli. E che sia un gioiello. Che sia degno del giocatore più grande di tutti i tempi, di un atleta straordinario del quale il medico sportivo del Napoli ebbe a dire: “Ha dei quadricipiti, una struttura, una potenza, che non sono umane”. Non cediamo alla tentazione mediocre di tirare in ballo la mano de dios, la droga, il figlio non riconosciuto… Tutto questo passerà presto. L’ultimo respiro è stato reso. La Storia dimenticherà le chiacchiere inutili, e si terrà le immagini strepitose di un campione unico. La grandezza di Diego Armando Maradona, l’eterno scugnizzo dei vicoli di Buenos Aires che conquistò quelli di Napoli e incantò il mondo, sarà riconosciuta in pieno, senza i se e i ma che qualcuno vorrebbe.
Di tanti si può dire che furono campioni. Ci accapiglieremo all’infinito per stabilire chi fu il più grande. Ma solo un calciatore merita l’aggettivo più ambito: irripetibile. Lui, Diego.
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