Ieri vincendo il campionato a 50 over, il Jinnah Brescia ha completato il grande slam del cricket italiano, conquistando tutti i quattro titoli seniores maschili. Questa impresa consente di mettere in evidenza una storia, lunga 15 anni, dai connotati non dissimili ad un’odissea, seppur ancora lontana da un lieto fine. Il cricket in Italia, si sa, è sport di nicchia o meglio lo è ovunque tranne in una città in cui, nonostante malcelati pregiudizi, ostacoli burocratici e restrizioni logistiche, è indubbiamente la disciplina egemone. Questa città è Brescia, la leonessa d’Italia di risorgimentale memoria. Cattolica ma tendente al progressismo, quasi ad incarnare la storica frase andreottiana che definiva la DC un partito di centro che guarda a sinistra, la capitale italiana della siderurgia è l’indiscusso prototipo della evoluzione sociale del nostro paese. Non tanto per i numeri che indicano un’alta percentuale di residenti stranieri quanto per il peso sociale che queste comunità, sempre meno etniche e più italiane, acquistano di giorno in giorno.
Se si parla di cricket, è ovvio che il riferimento va verso due nazionalità specifiche: gli indiani ed i pakistani. Ad onor del vero, sarebbe meglio parlare di un gruppo unico, quello punjabino posto che, a prescindere dallo Stato d’origine, la quasi totalità dei bresciani d’Asia proviene da questa regione la cui spaccatura in due nazioni ricorda quella del Tirolo tra Italia ed Austria. Gli indiani, nel settore agricolo, ed i pakistani, in quello siderurgico, occupano posizioni dominanti. Sono disponibili a lavorare anche doppi turni e conseguentemente propensi ad accumulare anche redditi inusuali per quella che nella limitata percezione dell’italiano medio è la ricchezza media dell’immigrato. Inoltre, per molti di loro, uomini soli, il cricket rappresenta l’unico svago, oltreché il modo per restare in contatto con le tradizioni della loro infanzia in patria. Nulla di male, verrebbe da pensare. Se non fosse che al cittadino bresciano medio la cosa risulta indigesta. Sia ben chiaro, non è qui si fa una distinzione politica per cui, come ci si aspetterebbe, la Destra osteggia e la Sinistra approva. Questo malessere è trasversale, essendosi ripetutamente manifestato nel corso degli anni.
Da presidente federale visitai per la prima volta Brescia nel 2006, perforando il guscio duro che rendeva la città, in termini di cricket, l’equivalente di una delle quattro fortezze concesse da Enrico IV agli ugonotti nell’editto di Nantes del 1598. Avevo pochi argomenti per convincere il florido movimento bresciano ad unirsi alla gioiosa espansione che, in quel momento, il gioco stava vivendo nella pianura padana. Se entrare a far parte dei campionati ufficiali era praticamente necessario per quasi tutti i club, causa la mancanza di avversari nel raggio di duecento chilometri, a Brescia questo problema non esisteva: c’erano giocatori e squadre a iosa per organizzare campionati autonomi. In quei primi anni del millennio, i giocatori bresciani erano un po’ come gli americani del basket degli anni settanta: presenti in ogni squadra a prescindere dalla località. A Bologna, Milano, Trento e perfino a Roma, non c’era club che non schierasse almeno un bresciano.
Di certo non aiutava a far evolvere in positivo la situazione l’atteggiamento delle autorità. L’unico campo esistente, costruito con il lavoro volontario di tutti gli appassionati, era più che dignitoso. Denominato India era ubicato in località Fornaci, area infetta dai policlorobifenili. Non poteva, quindi, essere riconosciuto a livello ufficiale. Un campo solo, peraltro semi clandestino, non bastando a soddisfare la domanda, il risultato fu che si cominciò a giocare spontaneamente nei parchi cittadini, cosa oggettivamente pericolosa. La Giunta Paroli, l’unica di centrodestra che ha governato Brescia negli ultimi 30 anni, tentò di mettere ordine in materia. Nel 2009 fu introdotta una normativa che proibiva il cricket nei parchi pubblici che salì alle cronache italiane quando il più famoso giocatore locale, il nazionale Fida Hussein, fu multato.
Fu a questo punto che feci presente al dinamico Vicesindaco Rolfi, che aveva trasformato il dibattito sulla sicurezza nei parchi in un’autentica crociata, che andava benissimo proibire ciò che era pericoloso ma che, al contempo, bisognava offrire a chi volesse praticare il gioco uno spazio adeguato. A rendere la questione ancor più attuale ci pensò la prima squadra bresciana iscritta ad un campionato federale: il Lions di Pontevico. Questo club, nel 2009, vinse il Campionato di Serie C giocando tutte le sue partite in trasferta. Il Lions avrebbe voluto partecipare alla Serie B l’anno successivo ma, essendo privo di campo, non poteva. Fu grazie alla creatività di Maria Teresa Negrini, storica dipendente dell’ufficio sport comunale, che, a mo’ di coniglio dal cilindro, fu reperito un impianto in sintetico adiacente alle torri di San Polo. Naturalmente il Lions vinse anche il Campionato di Serie B. Questo doppio trionfo costrinse il Comune a creare un campo ufficiale.
Scartato l’India per motivi d’opportunità fu identificata un’area nel Parco Ori Martin che fu denominata San Bartolomeo. Ci voleva una discreta fantasia per definirlo campo posto che si trattava d’un imbuto trapezoidale più o meno d’un ettaro con, adiacente all’entrata, un traliccio elettrico reminiscente quello di Segrate reso tragicamente famoso da Giangiacomo Feltrinelli. Detto ciò, era di nome, più che di fatto, un campo da cricket ed il 22 maggio fu ufficialmente inaugurato in occasione della partita tra il Lions ed il Genoa 1893. Naturalmente, la cosa non piacque agli abitanti del quartiere che cominciarono a subissare il Comune di proteste per l’indesiderata nuova intrusione.
L’onda lunga del cricket bresciano era ormai inarrestabile. A partire dal 2012 Janjua e Jinnah s’unirono al Lions portando a tre le squadre impegnate nei tornei federali. A San Bartolomeo i doppi turni domenicali divennero all’ordine del giorno, con il sabato dedicato ai tornei giovanili in cui le squadre bresciane diventavano sempre più dominanti a livello nazionale. Con il ritorno del centrosinistra al potere nella primavera 2013, la nuova giunta cittadina decise che San Bartolomeo andava abbandonato. Nei successivi sei mesi invernali mi recai a Brescia una decina di volte visitando più di venti possibili siti. Alla fine fu identificata l’area adiacente al cimitero di Via Gatti, dove in quel momento sorgevano gli alloggi temporanei dei lavoratori della nuova metropolitana. C’era il piccolo problema che San Bartolomeo andava abbandonato subito mentre il nuovo campo non sarebbe stato pronto per almeno 18 mesi. Le stagioni 2014 e 2015 videro, quindi, le squadre bresciane nuovamente costrette a giocare sempre in trasferta.
Il progetto del nuovo campo piacque molto all’International Cricket Council, l’ente che governa il cricket a livello mondiale. Nel settembre 2014 il responsabile per lo sviluppo europeo, Nick Pink, visitò Brescia restando esterrefatto per la quantità di cricket spontaneo che vide giocato per strada. Visionata l’area di via Gatti ne rimase così felicemente colpito da offrire la copertura totale del costo dei lavori perché si edificasse un campo di standard internazionale. Il pomeriggio stesso eravamo alla Loggia a discutere il progetto con una qualificata rappresentanza della Giunta comunale. Questa non voleva che si desse luogo al progetto, vedendo il campo come un potenziale pericolo per l’ordine pubblico in quanto punto di aggregazione per i tifosi del cricket del Nord Italia, tutti extracomunitari d’origine asiatica. Pertanto, aveva preparato la sua linea di difesa puntando sul costo eccessivo dell’opera. L’eliminazione di questo problema, con l’assunzione integrale delle spese da parte dell’ICC, colse i politici bresciani completamente alla sprovvista ma non fece loro piacere.
Dopo 10 giorni il Comune di Brescia rispose ufficialmente a Federazione Cricket Italiana ed ICC che non era possibile costruire il campo internazionale in quanto quella di via Gatti era intesa dal Comune come un’area ricreativa e non come un impianto sportivo. Il campo di via Gatti, inaugurato nel settembre 2015, a tutt’oggi resta allo stato semi brado. Non c’è mai stata una inaugurazione ufficiale. Lo stesso dirigente del Comune che mi aveva fornito la risposta negativa mi comunicò, in via informale, che “era troppo brutto” perché il Comune ci mettesse la faccia. La crescita qualitativa del cricket bresciano fu così fermata ma non certo quella quantitativa posto che la provincia di Brescia resta la prima per numero di tesserati nell’ambito della FCrI.
Quanto sopra spiega, almeno in parte, il successo eclatante del Jinnah, squadra figlia di un ambiente culturalmente immerso nel gioco. Alla base delle vittorie, però, c’è anche la figura del suo presidente, Siddiqui Kurram. Arrivato in Italia nel 2010 da Gujranwala nel Punjab pakistano, Siddiqui, oggi 37enne residente a Sarezzo, ha dovuto superare mille difficoltà. Non gli sono stati riconosciuti i suoi titoli di studio. Questo lo ha costretto ad iniziare facendo i lavori più umili ma non ha mai scalfito la sua determinazione. Divenuto presidente del club nell’ottobre 2020, Siddiqui, diversamente da quanto avviene in quasi tutte le squadre italiane, non si è tesserato come giocatore, concentrando tutte le sue energie ruolo di dirigente. In questo modo ha trasformato degli estrosi solisti in uno squadrone.
Il Jinnah può festeggiare oggi una impresa che va a collocarsi alla pari con il leggendario Gran Slam registrato nel 1988 dal Roma Capannelle. In questo lasso di tempo, equivalenti alla vita di Cristo, non a caso anche profeta dell’Islam, è cambiato, in parte anche grazie al cricket, il nostro Paese. Speriamo che questa felice metamorfosi possa continuare.
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