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Addio all’ultimo Mohicano del calcio italiano

Di Simone Gambino
Pubblicato il 19 Ago. 2023 alle 19:44 Aggiornato il 19 Ago. 2023 alle 19:45

Carlo Mazzone, scomparso oggi a 86 anni ad Ascoli sua patria d’adozione, è stato il personaggio più genuino dell’ultimo mezzo secolo del calcio italiano. Soprannominato Carletto, a dispetto della notevole stazza, Mazzone è stato l’ultimo rappresentante della vecchia scuola, quella in cui cuore e attributi prevalevano su tecnica e tattica. Romano purosangue, Mazzone non riuscì mai ad avere un rapporto felice, sia da giocatore che da allenatore, con i colori giallorossi, da lui tanto amati, con i quali esordì in Serie A a 22 anni contro la Fiorentina l’ormai lontano 31 maggio 1959. Dopo un anno diviso a metà tra Spal e Siena, nell’estate del 1960 approdò ad Ascoli che da allora, pur in mezzo alle inevitabili peregrinazioni della vita di chi lavora nel mondo del pallone, divenne la sua nuova casa. Bandiera e capitano dei bianconeri marchigiani per una decade sul campo, nel 1969 ne divenne anche allenatore in seguito a una geniale intuizione del presidente Costantino Rozzi.

È, infatti, impossibile parlare di Mazzone scindendolo dal rapporto simbiotico che lo legava al suo patron. Questo connubio, che tanto ricordava, fisicamente e moralmente, quello tra Robin Hood e Little John, nell’arco di quattro anni, dal 1971 al 1975 seppe elevare l’allora Del Duca dalla Serie C alla Serie A, ottenendo, una volta giunto nella massima categoria, una salvezza tanto meritata quanto ritenuta impossibile dagli addetti ai lavori. Di quella compagine, forse la più operaia ad aver mai calcato il sommo proscenio del calcio italiano, furono simboli Renato Campanini, un anziano fromboliere ferrarese rinato in riva al Tronto, e Mario Colautti, roccioso difensore friulano dotato d’un tiro molto potente il cui gol, a un quarto d’ora dalla fine, il 26 gennaio 1975 regalò alla matricola Ascoli il roboante successo sulla Lazio, campione d’Italia.

L’estate successiva, con la benedizione di Rozzi, Mazzone lasciò il Piceno per tentare la grande avventura alla guida della Fiorentina di Giancarlo Antognoni. L’esperienza in riva all’Arno non fu felice con solo il terzo posto, ma a distanza siderale dalle duellanti torinesi, nella stagione 1976/77 come attestato positivo della sua presenza conclusasi con l’esonero l’anno successivo, dopo una decina di partite con la squadra in zona retrocessione. Dopo essersi parzialmente rilanciato a Catanzaro, a pochi giorni da fine 1980 arrivò la nuova chiamata di Papà Costantino che lo riportava al capezzale d’un Ascoli agonizzante.

I quattro anni che seguirono videro il Picchio mantenere la Serie A ergendosi anche a squadra dal gioco spumeggiante. Il sesto posto del campionato 1981/82 avrebbe ben meritato la partecipazione a una coppa europea che, invece, non ci fu a causa del pessimo ranking UEFA dell’Italia a quei tempi. Tuttavia, nell’autunno 1984 qualcosa si ruppe nell’idillio con Rozzi che, complice una pessima partenza, esonerò l’allenatore capitolino. Dopo un anno oscuro a Bologna, fu il Salento a beneficiare del buon operato di Carletto che, perso un primo spareggio per salire in A, conquistò la promozione l’anno successivo, cui fecero seguito due salvezze consecutive. In quel Lecce militavano due giovani del vivaio che avrebbero fatto tanta strada: Antonio Conte e Franco Moriero. Nell’ottobre 1991 fu il Cagliari ultimo in classifica a chiedere aiuto a Mazzone. La conquista d’una comoda salvezza, seguita dal sesto posto nel 1992/93 che riportava i sardi in Europa per la prima volta dai tempi di Gigi Riva, schiuse la porta alla chiamata che il tecnico attendeva da sempre, quella della “sua” Roma.

Nell’estate 1993 la squadra giallorossa viveva un momento travagliato con il passaggio dalla gloriosa epoca di Dino Viola a quella, in futuro non meno blasonata, di Franco Sensi ben lungi dall’essere consolidato. Mazzone si trovò a gestire una discreta squadra che, poi, negli anni successivi, fu decisamente rafforzata. Tuttavia, il tanto atteso salto di qualità non arrivò. Nell’estate 1996, andando contro il volere della piazza, Sensi decise di sostituire Mazzone con l’argentino Carlos Bianchi, una versione platense in stile minore di Arrigo Sacchi. Per molti versi, la sua carriera finì in quel momento.

Mazzone avrebbe continuato ad allenare per altri dieci anni, con parentesi dignitose a Bologna, Perugia e Brescia in mezzo ad altre meno brillanti. L’esperienza nella Leonessa viene ricordata, soprattutto, per la sua corsa dissennata sotto la curva dei tifosi atlantini al termine d’una clamorosa rimonta all’ultimo secondo delle rondinelle in un combatuttissimo derby disputatosi il 30 settembre 2001. Al Brescia, sotto il profilo tecnico, ebbe il merito di trasformare Andrea Pirlo da trequartista in regista, in aggiunta all’onore d’allenare Roberto Baggio e Josep Guardiola, instaurando con queste due leggendarie figure un rapporto di stima profonda che lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni, come testimoniato dagli affettuosi auguri inviatigli il 19 marzo scorso, in occasione del suo compleanno, dell’allenatore catalano.

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