DE ROSSI ADDIO ROMA – Non con le lacrime ma con il sorriso, Daniele De Rossi saluta e se ne va. Non è solo un giocatore della Roma: è un pilastro della nazionale, un campione nel mondo, un pezzo di storia del calcio italiano, una bandiera della serie A.
Però, stupisce, nel giorno dell’addio dell’Olimpico, il senso apparentemente agrodolce, ma in realtà amarissimo di questa giornata. Perché ancora una volta la Roma che non vince titoli, è costretta a celebrare se stessa nell’unico modo possibile, con la cerimonia degli addii. Prima quello a Francesco Totti, poi questo a Ddr. Due vite parallele, un destino comune. Sono entrambi campioni sommersi dall’amore dei tifosi, ma ripudiati da quella stessa società che li manda a casa contro la loro volontà.
De Rossi ha raccontato, nei giorni scorsi, che avrebbe giocato anche senza ingaggio, anche pagato a gettone. Ma la presidenza americana non ne ha voluto sentire: lo ha considerato un ingombro, un problema, un mito troppo ingombrante e difficile da gestire.
Nel tempo del calcio industrializzato è sponsorizzato, nell’era dei presidenti intercontinentali, le bandiere identitarie sono quasi mal sopportate. E tuttavia contano, raccolgono amore, in serate come questa restano la vera identità oltre la logica degli affari.
La Roma che resta fuori dalla Champions, la Roma della passione e del tifo, resta aggrappata al suo capitano così. La società che lo ha ripudiato è costretta a celebrare il suo rito. E sugli spalti risuona il verso di Feancesco De Gregori aceto da Ddr: “Sempre e per sempre/ dalla stessa parte/ mi troverai”. Giù il cappello.