Calcio e Covid, tamponi di Serie B: nelle categorie minori nessuno controlla
In Italia i contagi da Covid-19 crescono in modo sempre più esponenziale, al punto da indurre il Governo a emanare un nuovo Dpcm con restrizioni a feste, bar, ristoranti e gite scolastiche. La nuova stretta non ha risparmiato neanche il mondo dello sport: il provvedimento, infatti, vieta “tutte le gare, le competizioni e tutte le attività connesse agli sport di contatto aventi carattere amatoriale“. Tradotto: possono continuare ad allenarsi e giocare solo le società professionistiche e le associazioni dilettantistiche riconosciute dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) e dal Comitato italiano paralimpico (CIP). Vanno avanti dunque le principali competizioni sportive nazionali, nel rispetto dei protocolli stilati insieme al Comitato tecnico scientifico. Ma è proprio nei protocolli – che contengono tutte le procedure anti-Covid obbligatorie per le società e le azioni da mettere in pratica nel momento in cui si registra un contagio – che c’è una grandissima differenza di trattamento a seconda della categoria in cui gioca la singola squadra. Che sia di calcio, di basket o di qualsiasi altro sport da contatto. E, neanche a dirlo, a essere penalizzate sono le società che militano nelle serie minori.
Il motivo? Tutto ruota intorno all’obbligo di effettuare i tamponi, al momento l’unica prova certa (insieme al test sierologico, che però non dà indicazioni precise su una positività in corso) per stabilire se un calciatore ha o meno il Coronavirus. Se le squadre professionistiche sono tenute a farlo prima di ogni partita, l’obbligo cade quando si scende nel dilettantismo. “Serve solo un’autocertificazione in cui l’atleta dichiara sotto la sua responsabilità di non avere avuto sintomi compatibili con il Covid né contatti con potenziali infetti”, spiega a TPI Francesco Speciale, medico sociale dell’ACR Messina, squadra che milita in Serie D. “La legislazione per me è molto leggera: non fornisce garanzie di bloccare i contagi, ma allo stesso tempo da dilettanti non possiamo pensare di rispettare i protocolli di Serie A. Il costo sarebbe proibitivo”, dichiara ancora il dottore.
Calcio e Covid: tamponi obbligatori solo per i professionisti
Il problema quindi, come sempre, è economico: non si può pensare di fare tamponi a tutti i calciatori che giocano nel nostro Paese. E, dando un’occhiata ai numeri pubblicati dalla Figc, si capisce facilmente anche il motivo: in Italia i professionisti sono circa 15mila, mentre i dilettanti sono oltre 365mila (senza contare i settori giovanile e scolastico). Quasi impensabile – in una fase in cui i tamponi servono a tutto il Paese – fare test settimanali su tutti questi calciatori. Non ci sono soldi, non ci sono reagenti, non ci sono le strutture per poterlo permettere. Senza considerare che i dilettanti, in quanto tali, svolgono anche altri lavori. Per questo motivo, il Governo e il Cts hanno convenuto che fosse il caso di rendere obbligatori solo i tamponi in Serie A, Serie B e Lega Pro.
Nella Serie A (dove i positivi sono 80, nel momento in cui scriviamo), tutti i giocatori sono obbligati a fare un tampone 48 ore prima di una partita. Restano immutate tutte le altre norme di sicurezza: misurazione della temperatura all’ingresso e all’uscita dallo stadio, sanificazione degli ambienti, mascherina in panchina, entrata in campo con distanziamento, limite al pubblico sugli spalti. Regole simili valgono anche in B e in Lega Pro. Secondo alcuni calcoli, nel massimo campionato di calcio italiano – da giugno scorso – ogni calciatore si è sottoposto a circa 30 tamponi, per un totale di 30mila test al prezzo di 120 euro ciascuno. In totale, le squadre di Serie A hanno speso 3,6 milioni di euro in tamponi. Numeri davvero fuori portata per il dilettantismo.
I dilettanti sono più immuni? Ovviamente no
Il tema vero è che, come è ovvio che sia, il Coronavirus non fa distinzioni tra professionisti e dilettanti. Contagia tutti alla stessa maniera e, senza tamponi prima di ogni partita, il rischio di passarsi il Covid tra le centinaia di migliaia di calciatori che ogni settimana giocano sui campi di periferia è veramente alto. A spiegare com’è la situazione tra i dilettanti, a TPI, è Valerio Abagnale, giovane osservatore della Romulea, squadra che milita nella prima categoria romana. “I tamponi? Si fanno solo in caso di positività di qualche ragazzo o genitore. Noi, ogni volta che qualcuno entra nella struttura, dobbiamo chiedere solo l’autocertificazione. Ma ovviamente lascia il tempo che trova, visto che la certezza non si ha mai”, racconta. Anche in prima categoria, gli altri obblighi rimangono in vigore: “Facciamo rispettare le distanze – continua Abagnale -, usiamo le mascherine, facciamo addirittura gare e allenamenti senza pubblico, misuriamo a tutti la febbre, abbiamo anche un registro dove teniamo nota di tutte le persone che entrano nella struttura in modo tale, in caso di positività, di poter avvisare tutte le persone presenti quel giorno. Noi facciamo il massimo per rispettare i protocolli, ma c’è grande paura di doverci fermare di nuovo”.
Anche Francesco Speciale, medico dell’ACR Messina, teme più di tutto un nuovo stop: “Temo – dice a TPI – che i campionati dilettantistici non verranno conclusi quest’anno. Se continuano ad aumentare i contagi, da medico non vedo altra soluzione se non chiudere entro i prossimi due mesi. Consideriamo che ci sarà anche l’influenza e non sarà facile distinguere i sintomi. In Serie A ci sono decine di positivi. Facendo i tamponi anche da noi, avremmo gli stessi numeri o forse anche più alti…”. Secondo il medico, “non siamo pronti a fare i tamponi nel dilettantismo, anche se sappiamo che andrebbero fatti. Bloccare tutto lo sport dilettantistico a livello nazionale? Significherebbe chiudere anche le scuole calcio, lo sport scolastico, le palestre, coinvolgere una serie di lavoratori che hanno bisogno di lavorare”. Le singole squadre, a tutti i livelli, stanno facendo di tutto per fare qualcosa in più rispetto al protocollo, ma non si riesce ad andare oltre qualche sierologico in più. Decisamente troppo poco per garantire l’incolumità dei calciatori e, una volta che questi rientrano a casa, delle loro famiglie.
Gli altri sport: il caso del basket
Negli altri sport da contatto, la situazione non è molto diversa dal calcio. Nel prendere l’esempio del basket, bisogna però prima spiegare che nella pallacanestro italiana il professionismo è riconosciuto solo nella massima serie, la A1. Dalla A2 in giù, invece, si è già dilettanti. Nonostante ciò, i protocolli anti-Coronavirus prevedono l’obbligo di tampone fino alla Serie B, quindi la terza categoria del basket. Tuttavia, i tamponi non sono ripetuti prima di ogni partita come il calcio. Sono obbligatori soltanto prima della preparazione pre-campionato e poi in vista della prima partita (5 giorni prima). Con un’ulteriore differenza tra le varie categorie: in A1 e A2, è obbligatorio fare un test sierologico e poi un doppio tampone, che deve avere esito negativo. In B1, solo il sierologico e un tampone rapido.
E nelle categorie inferiori? A rispondere a questa domanda, a TPI, è Emanuele Franciò, allenatore dell’Amatori Basket Messina, che milita in Serie D. “I campionati regionali inizieranno a novembre – premette – e quindi può ancora succedere che ci siano nuovi Dpcm e nuove regole. Rispetto ai campionati professionistici, non abbiamo alcun obbligo di fare tamponi. Però abbiamo l’obbligo di autocertificare le condizioni di salute dei giocatori all’inizio del raduno e poi ogni settimana, oltre alle altre procedure come il controllo della temperatura, la sanificazione, l’utilizzo di scarpe diverse dentro e fuori dall’impianto e le mascherine in panchina. L’ultimo Dpcm ci ha esonerati dal fare anche il test sierologico veloce, che prima invece dovevamo per forza effettuare prima di iniziare il campionato”. Secondo Franciò, il problema “non è solo economico, ma anche organizzativo: bisogna avere i tamponi pronti prima di ogni partita, gli atleti non sono professionisti e fanno altri lavori. Diventa tutto complicato”.
The show must go on: e la sicurezza?
“Nel nuovo Dpcm – ha dichiarato il ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora – abbiamo tutelato non solo lo sport professionistico ma anche quello dilettantistico: associazioni e società sportive, federazioni ed enti di promozione hanno infatti dato prova di aver rispettato con rigore i protocolli emanati nelle scorse settimane, spesso anche affrontando spese di adeguamento e messa in sicurezza degli spazi e delle strutture”. Guardando alle regole che il mondo dello sport si è dato per poter andare avanti con le gare senza interrompere tutto a causa del Covid, l’impressione però è che nel cercare di bilanciare gli interessi economici e la tutela della salute degli atleti si sia finiti per cadere in una enorme discriminazione.
La scelta è stata preservare il professionismo (con l’indotto economico che ne consegue, ma anche grazie ai numeri più bassi in quanto a totale di atleti tesserati) con l’utilizzo dei tamponi, mentre per garantire continuità anche nel dilettantismo si è puntato invece sul buonsenso delle persone. Una vera e propria scommessa, visto che secondo tutti gli addetti ai lavori consultati da TPI si tratta di misure assolutamente insufficienti che lasciano in tutti gli sportivi una sensazione di mancata sicurezza. Mentre fuori dagli stadi e dai palazzetti imperversa una pandemia che contagia migliaia di persone ogni giorno.
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