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Pierluigi Diaco, il debutto del nuovo programma non convince

Credits: ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Di Franco Bagnasco
Pubblicato il 20 Gen. 2021 alle 13:51 Aggiornato il 20 Gen. 2021 alle 13:53

Salutato da un tenero 3,8% di share (in proporzione c’è stata più affluenza in Senato), ovvero 341.000 spettatori, Ciampolillo compreso, ha debuttato ieri notte “Ti sento“, il nuovo talk di Pierluigi Diaco. Conduttore il cui governo, a Viale Mazzini, da anni, non conosce crisi. Se non d’ascolti. Dopo aver appena concluso l’esperienza del pomeridiano “Io e te” di Rai1, il nostro è andato subito in astinenza da video, ed eccolo prontamente in onda sull’ospitale Rai2. Del resto nella vita le reti si provano un po’ tutte. A Diaco non pare vero di aprire con la surreale frase: “Per me è un ritorno davanti alle telecamere della Rai, per cui non vi nascondo anche una certa emozione”. Ma se eri lì fino all’altro ieri, benedetto ragazzo… In realtà l’emozione il nostro la nasconde benissimo, perché con quella perenne calma piatta irreale che ostenta a me ricorda un po’ il cyborg che inseguiva Schwarzenegger in “Terminator”, ma tant’è.

L’ascolto basso è ancora più stridente visto il traino (la partita di Coppa Italia Roma-Spezia, finita ai tempi supplementari) e l’ospite che definire di spicco è poco: Roberto Mancini, Commissario Tecnico della Nazionale. L’idea alla base del programma è più radiofonica che televisiva. O meglio, pavloviana. Prendere l’intervistato di turno e fargli ascoltare dei suoni per poi farlo reagire ai medesimi o sottoporgli domande consequenziali. “Voglio farti sentire un suono”, è infatti il mantra del cicerone. Il tutto mentre l’illustratore Jack Tessaro disegna dal vivo improvvisando sui grandi ledwall dello studio. Che è stato ricavato, in modo molto elegante e anche con un’efficace soluzione di ripresa dall’alto, in una piccola sezione dello storico Teatro delle Vittorie, a Roma. Dove nella parte principale si registrano “I soliti ignoti”.

Il risultato dell’operazione è stato sotto gli occhi di tutti. Quei pochi, chiaro. Oltre all’imbarazzante banalità delle domande del conduttore, che una volta ha provato anche a ridere (per farci capire bene quale fosse il suono dell’innata spontaneità, che dovrebbe essere campionato e consegnato ai posteri), ecco i momenti più alti. L’ineffabile Pierluigi fa ascoltare all’incolpevole Mancini il rumore del dito che compone un numero sul vecchio telefono a rotella e trova occupato, pretendendo dal povero CT, che non è un millennial, un commento adeguatamente vintage; gli sottopone poi l’irritante trapano del dentista per planare con un’inspiegabile, funambolica acrobazia, a una domanda generica sul “dolore interiore”. Che è come chiedere a un pescatore che cosa pensa di quando le orate vanno dallo psicoterapeuta; manda l’audio di un muezzin per chiedergli del suo anno trascorso a Istanbul. Insomma, si vola così alto che a Mancini non resta che adeguarsi con risposte totalmente in linea con la trasmissione. Sul Covid: “Persone potenti, ricche, si sono rivelate tutte vulnerabili. Spero che si possa tornare presto a una vita normale col vaccino”. E ancora: “Che cosa mi auguro? La pace nel mondo”. Come una Miss Italia qualsiasi. Per fortuna il programma è finito prima dell’ascolto del moccolo di un gondoliere e di: “Venezia è bella ma non ci vivrei”.

Quarantatré anni, ex dj con un passato nell’Azione cattolica, Diaco iniziò la sua vera scalata alla tv dopo aver espresso pubblica ammirazione nei confronti di Maurizio Costanzo, che in seguito per un po’ lo adottò anche in trasmissione. Pare che, a oggi, la sua principale aspirazione sia quella di non disturbare nessun manovratore e mantenere saldamente posizioni (anche notturne) a Viale Mazzini, candidandosi a diventare il nuovo Gigi Marzullo dell’etere. Con quelle interviste che nessuno ti nega perché in fondo tutti amano essere incensati. L’idea dei suoni è dichiaratamente sulla scia emozionale di una suggestione che il nostro (che adora i primi piani e la camera costantemente su di sé) già utilizzava in “Io e te”. Piazzarsi al centro dello studio su una poltrona, in totale silenzio e a volte con gli occhi chiusi, facendosi inquadrare mentre in sottofondo la regia mandava un’intera canzone. Interminabili minuti di suspence probabilmente invidiati anche da Anthony Hopkins, l’Hannibal Lecter de “Il silenzio degli innocenti”. E come diceva il compianto Franco Lechner in arte Bombolo: “Vieqquà, che voglio farti sentire un suono…”. Tzè tzè.

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