Era il 7 settembre 2013 quando, in un campo di granturco, veniva ritrovato il corpo nudo di una ragazza. Giovanissima, di una bellezza eterea, tant’é che l’uomo che ne trova il cadavere inizialmente lo scambia per un manichino: ho dovuto toccarla per capire che non fosse di plastica, dice.
La vittima si chiamava Lavinia Simona, aveva solo diciotto anni. Studiava per coronare il sogno di diventare infermiera, amava molto i suoi fratelli e si era innamorata follemente di quello che sarebbe diventato il suo protettore. Di quello che offriva ai clienti la “escort-bambina” che, per non pesare sulla famiglia, pensava di racimolare qualche soldo, ma non di morire.
Nessun vestito, nessun oggetto personale, solo due fascette blu da elettricista le stringono il collo – quelle con cui è stata strozzata – e un asciugamano bianco le copre il viso. È da qui che partono le indagini della Polizia: dalla marca della salvietta gli investigatori risalgono a un motel che si trova non troppo lontano dal luogo del ritrovamento del corpo.
Una stanza è sottosopra. Cuscini all’aria, sangue, capelli dappertutto: e sono biondi, come quelli di Lavinia. Nel registro degli ospiti, però, nessuna donna è Lavinia. Compare il nome di un uomo che sembra aver soggiornato da solo, un cliente abituale. Il portiere lo ricorda bene: è altissimo, ha la barba lunga, la coda stretta in un codino.
Quel pomeriggio, durante il check-out, gli è sembrato stanco, agitato, era come se avesse corso ore sotto il sole, invece aveva ucciso. Non solo ucciso. Andrea Pizzocolo aveva anche torturato prima il corpo vivo e poi il corpo morto. Lui non lo rivela.
Confessa quasi subito, ma non ammette di aver stuprato Lavinia quando era già morta. È quello che scopre la Polizia in seguito alle perquisizioni dell’auto dell’assassino: nel suo zaino piccoli oggetti che nascondono microcamere, nella memoria ci sono i video del terrore che lui ha registrato poco prima.
I poliziotti esaminano con sconcerto il film che riprende l’omicidio per intero: Lavinia entra nella stanza d’hotel, chiacchiera con l’uomo che la ucciderà, ma lei non lo sa ancora. Beve un analcolico, vuole restare vigile, eppure si sente strana; lo scrive al suo amore per messaggio, non sa cosa succede, forse si sta addormentando. Pensa a sua madre, ai suoi fratelli, agli sforzi che fa per inseguire il futuro che desidera, ai compromessi a cui scende, pensa che ce la farà, ma in testa ha già la nebbia.
L’assassino le prende la testa, le gira una fascetta intorno al collo, la soffoca. Il video riprende l’agonia di Lavinia: Pizzocolo le tiene la bocca chiusa per molti minuti, fino a quando lei non si muove più. La polizia nota che la camera dove l’omicidio avviene non è quella su cui sono incentrate le indagini.
Dove è stata uccisa Lavinia? Altrove, in un altro hotel. In un hotel dove la vittima è entrata viva, ma viva non è mai uscita. Pizzocolo ha messo il suo cadavere nel portabagagli e l’ha portata nel secondo motel. Lì ha riposato, uccidere lo aveva stancato. Ha disposto nuovamente le microcamere, ha pensato alla regia dell’orrore che voleva realizzare: era solo a metà dell’opera.
Ecco un altro film, la polizia fa play: Pizzocolo viola il cadavere di Lavinia, parla come fosse viva, ma lo sa che non è viva, quel corpo è freddo, muto e immobile. È quello che lui cerca: non la donna che vive e ama, ma esercitare un potere sporco e senza confini, che vada persino oltre la morte. In quel momento – pensa – Lavinia gli appartiene, ma non è vero niente: lei non è più nel mondo dei vivi, non appartiene neanche più a se stessa.
Andrea Pizzocolo è ancora vicino alla donna che ha ucciso due volte quando sente squillare il proprio cellulare: è sua moglie, era in viaggio ma è tornata prima del previsto, con sé ha la loro piccola figlia. Pizzocolo si veste. Porta Lavinia in quel campo e la abbandona al limitare del granturco, non si preoccupa di nasconderla, agisce come non avesse fatto niente. Non è un colpevole che nasconde la propria vittima, ma un automa che risolve un problema pratico.
Torna a casa, non è mai stato così felice di essere a casa. Quella sera guardano tutti insieme i cartoni animati, padre, madre e figlia. Suona il citofono, è la polizia, ma Pizzocolo non vuole far entrare nessuno. Chi è?, domanda sua moglie. Chi è papà?, domanda la sua bambina. Nessuno. Non vogliono niente. Continuiamo a guardare i cartoni insieme.
I poliziotti entrano in casa, all’ingresso c’è un pacco di fascette blu da elettricista. Chiedono a Pizzocolo il documento, ne ha uno falso, è quello che usa per andare negli hotel con le prostitute. Confessa quasi subito, là, sul ciglio di casa: sono io che l’ho uccisa. Spera che sua figlia non senta.
Durante l’interrogatorio racconta ogni cosa. Non può negare l’orrore che lui stesso ha ripreso, secondo per secondo, in quei suoi video. “Sentite” interpella gli investigatori “adesso che succede? Me ne torno a casa?” Sul volto dei poliziotti lo sconcerto. “Ma no, lei ora è in arresto, ha ammazzato una persona”. “Ah, certo…” ragiona lui mentre la realtà, piano piano, gli scende sugli occhi “e come faccio con il lavoro?”.
Nel frattempo, spuntano altri video. Lavinia l’ha uccisa, le altre le aveva solo torturate. Film montati e schedati, sono l’impronta di una perversione. Prima di passare all’atto aveva fatto centinaia di prove generali. Sua moglie non ne sapeva niente. “Perché non ne ho saputo niente?” si dispera, è sconvolta. Ancora oggi, undici anni dopo, il suo cuore non crede a quello di cui la sua mente é certa. Gli porta il pranzo tutti i giorni in carcere, è suo marito.
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