Sono le due del mattino e al teatro Ariston c’è aria di festa, i coriandoli invadono il palco dopo la proclamazione dei vincitori e celebrano l’esito quasi scontato della 72esima edizione del festival di Sanremo, che nemmeno l’eterea Elisa e l’eterno Morandi sono riusciti a cambiare. A portare a casa la statuetta con il leone rampante è la coppia che dalla prima esibizione è entrata nella routine e nella pelle del pubblico, nelle playlist nazionali (il loro brano è stato il più ascoltato su Spotify nelle prime 24 ore con 3.384.192 stream) e globali (al numero cinque della top 50 globale) con “Brividi“: Mahmood e Blanco.
Lui, Alessandro Mahmood, ha 29 anni e al Festival è un veterano: lo vince per la seconda volta in quattro anni dopo essere arrivato primo nel 2019 con “Soldi”. L’altro, Blanco, al secolo Riccardo Fabbricone, classe 2003, 19 anni tra una settimana e un passato da calciatore, è la vera rivelazione della kermesse: occhi a mandorla, sguardo duro, sorriso fresco, stile elegante e gentile. In estate cantava “Mi fai impazzire” insieme a Sfera Ebbasta. Ora arriva per la prima volta a Sanremo con un tono più intimo ma lo stesso carisma e la stessa incisività. Calca il palco con disinvoltura nonostante non abbia mai avuto modo di esibirsi, nemmeno prima che la pandemia iniziasse: nel 2020 aveva 17 anni. Aveva iniziato a scrivere canzoni nella sua cameretta quasi per gioco, nel 2017, lasciando gradualmente una promettente carriera nel calcio che lo aveva reso capitano negli Allievi della Feralpisalò, società che milita in serie C.
Nella musica Blanco è una novità, non solo per la giovane età: è uno dei primi artisti nati durante il lockdown che a marzo del 2020, proprio mentre si concludeva l’ultimo Festival pre-pandemia, ha costretto a casa migliaia di adolescenti separati bruscamente dai compagni e dalla vita per effetto di Dad e quarantene. Il rapper inizia a scrivere e a concentrarsi solo sulla musica, riversando la voglia repressa di uscire e scoprirsi che ha coinvolto una delle categorie più socialmente sacrificate dal Covid in un primo Ep: “Quarantine Paranoid”, in cui canta la rabbia incredula dei 16enni davanti a una realtà senza precedenti. “Il mondo va a puttane, io faccio lo stesso / Brutte tette di cazzo, restate a casa“, recita uno dei brani.
Toni disillusi e arrabbiati, abbastanza comuni per adolescenti “di provincia” (lui viene da quella di Brescia) che in quel caso esprimevano però una condizione di marginalità virtuale più che territoriale, in cui la pandemia, e non solo gli ostacoli della crescita, aveva relegato i più giovani. Blanco carica i suoi brani su Spotify e attira l’attenzione di una casa di produzione, la Universal, con cui dopo pochi mesi pubblica i suoi primi due singoli. In due anni scala le classifiche con “Notti bianche” e “Mi fai impazzire“, che parlano di sesso, amore, passione e struggimento, ma sul palco di Sanremo Blanco si libera della “quarantine paranoid” e porta con sé la voglia di vincere che è la voglia di ripartire di una generazione intera, più forte e urgente di quella di tutti gli altri, perché privata di un tempo e di esperienze formative che nessuno le restituirà.
Più forte di quella di Elisa, che a 18 anni sperimentava le sue doti di rocker in erba nei locali di Trieste, o di Gianni Morandi, simbolo di una generazione cresciuta nel boom economico post bellico, più fortunata e spensierata di quella di Blanco. E più forte anche di quella di Mahmood, che ha fatto in tempo a esordire e godersi la fama prima che il Covid sacrificasse la musica, e che da adolescente scorazzava libero in comitiva nel quartiere in cui è cresciuto a Milano, pur con tutti i drammi legati a una storia familiare complicata (quella che raccontava in “Soldi”) e alla periferia associata ai rapper e ai trapper della sua generazione.
Blanco è nato a pochi chilometri da Mahmood, ma in un anno e in un tempo che tra i due segnerà uno spartiacque, perché è quello degli adolescenti che finiranno la scuola in cameretta e che “come pugili all’angolo” porteranno con sé sensazioni di paura e isolamento, uguali per tutti a prescindere dalla città e dal quartiere in cui sono cresciuti. Sono gli adolescenti vissuti nel tira e molla di aperture e chiusure delle classi, gli stessi che ora si ribellano alla reintroduzione della seconda prova scritta all’esame di Maturità e che protestano per non essere mai stati consultati nei tavoli istituzionali in due anni di pandemia, paradossalmente gli stessi che nel frattempo sono diventati per la prima volta parte integrante del pubblico della kermesse, in un anno in cui il Festival ha segnato il record del 74 per cento di share tra i 15-24enni.
Ma nella vittoria di Blanco c’è qualcosa in più del target strategico di un’azienda: c’è il grido di una generazione che ha bisogno di essere protagonista, uscire dall’invisibilità, essere ascoltata, emergere, vivere. Ed è ai suoi coetanei che sembra rivolgersi quando, dopo aver salutato la madre attraversando di corsa il pubblico in platea per darle un bacio (ricordando un po’ la telefonata che Federico Chiesa fa alla madre sul campo di Wembley dopo la vittoria degli Azzurri agli Europei di calcio) prima di congedarsi Blanco dice festoso e contento: “Andiamo a ubriacarci“. Più che la promessa di spaccare tutto tipica di ogni star bella e dannata che si rispetti – in linea con l’immaginario dipinto dalla band che l’anno scorso ha preceduto il duetto sullo stesso palco, i Maneskin – un invito a fare festa, vivere esperienze, avere i “brividi”, provare ad amare e “sbagliare sempre”.