Il 12 gennaio del 1969 usciva nel Regno Unito il primo album di un gruppo che avrebbe segnato la storia del rock nel decennio successivo: i Led Zeppelin.
Robert Plant (voce), Jimmy Page (chitarra), John Paul Jones (basso) e il compianto John Bonham (batteria) sono oggi considerati delle vere e proprie divinità della musica contemporanea, in grado con il loro rock-blues viscerale, sensuale e selvaggio di influenzare decine di gruppi successivi e conquistare milioni di fan.
Autori tra il 1969 e il 1980 di capolavori come Stairway to Heaven, Whole Lotta Love o Kashmir, a fine anni Sessanta gli Zeppelin erano semplicemente un complesso britannico in cerca di fortuna, con il chitarrista Jimmy Page in cerca di nuove strade dopo essere fuoriuscito dalla formazione degli Yardbirds.
In questo contesto, è bene sapere che, nonostante la critica oggi li esalti come paladini del rock più entusiasmante, non fu sempre questo il caso.
Qui a TPI abbiamo recuperato la recensione originale uscita sulla rivista Rolling Stone di Led Zeppelin I, disco uscito il 12 gennaio del 1969, per capire quale fosse stata la reazione all’epoca. Come potrete notare, il pezzo di John Mendelshon, autore della recensione, non fu affatto entusiastico nei confronti della nuova band.
“In quest’epoca, che arriva dopo il grande successo di
musicisti blues britannici come i Cream e John Mayall, la formula più diffusa
in Inghilterra sembra essere quella di aggiungere una sezione ritmica
competente e un belloccio che canti a squarciagola imitando bene un nero a un ottimo
chitarrista che sia diventato una divinità minore dopo aver lasciato gli
Yardbirds e/o John Mayall. L’ultimo dei gruppi blues inglesi così concepiti ha poco da
offrire rispetto a quanto il suo gemello, il Jeff Beck Group, non abbia già detto tre mesi fa
altrettanto bene o meglio, e gli eccessi presenti sull’album Truth del gruppo di Beck (in particolare
la sua autoindulgenza e limitatezza) sono pienamente in evidenza sull’album di
debutto dei Led Zeppelin.
Jimmy Page, attorno al quale ruotano gli altri Zeppelin, è sicuramente
un chitarrista blues straordinariamente competente e un esploratore delle possibilità
elettroniche del suo strumento. Purtroppo, però, è anche un produttore molto limitato
e un autore di canzoni deboli, prive di immaginazione, e l’album degli Zeppelin
soffre del fatto che sia lui ad averlo prodotto e ad averne scritto la maggior
parte (da solo o in combinazione coi suoi complici nel gruppo).
L’album si apre con una serie di scambi tra chitarra e sezione
ritmica (nello stile di Shapes of Things
di Jeff Beck in Good Times Bad Times,
che avrebbe potuto essere perfetta come lato B degli Yardbirds). Qui, come in
quasi tutto il resto del disco, è la chitarra di Page che procura i maggiori
entusiasmi. Babe I’m Gonna Leave You
si alterna tra gli ululati femminei di Robert Plant sopra una chitarra acustica
e ritornelli insistenti con la band che segue una progressione di quattro
accordi mentre John Bonham si abbatte sui suoi piatti a ogni battuta. Il brano è molto fiacco in alcune parti (in particolare i
passaggi vocali), molto ridondante, e certamente non meritevole dei sei minuti
e mezzo che gli Zeppelin gli concedono.
Due standard del blues di Willie Dixon, già troppo abusati, non
riescono ad essere rivitalizzati quando Page and Plant li usano come vetrine
per mettersi in mostra. You Shook Me
è il più interessante tra i due – alla fine di ogni verso la voce riverberata di
Plant finisce in una piccola esplosione di chitarra fuzz-tone, con la quale duetta in una serie di grida stridule nel finale.
Il pezzo più rappresentativo dell’album è How Many More Times. C’è un’introduzione
jazzata che lascia il posto a un potente (anche se monotono) sottofondo di chitarra per le urla sforzate e poco
convincenti di Plant (potrà essere affettato come Rod Stewart, ma non è in
alcun caso altrettanto entusiasmante, soprattutto nei registri più alti). Un
buon assolo di Page conduce poi la band in quella che sembra una versione al
contrario di Beck’sBolero, composta
da Page, quindi ad un breve frammento di The
Hunter di Albert King, e infine a una valanga di urla e tamburi.
Nella loro volontà di sprecare il loro notevole talento su del
materiale indegno, gli Zeppelin hanno realizzato un album che richiama tristemente
alla mente Truth. Così come il gruppo
di Beck, sono anche bendisposti a fare di sé uno show di due soli musicisti (o,
più precisamente, uno e mezzo). Probabilmente, se il loro obiettivo è
contribuire a colmare il vuoto creato dalla fine dei Cream, dovranno impegnarsi
a trovare un produttore (e un editor) e del materiale degno della loro
attenzione collettiva.”
(John Mendelsohn, recensione di Led Zeppelin I apparsa su Rolling Stone, 15 marzo 1969)