La massa lo ricorderà per “Centro di gravità permanente”, incursione in una strana (inedita per l’epoca, era il 1981) forma di pop alto che ha sfondato anche in classifica. In bilico tra “gesuiti, euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli Imperatori della dinastia dei Ming” e quella dichiarata avversione per “I cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese”, e persino “la nera africana”. Era l’anno in cui Eduardo De Crescendo pubblicava un classico del romanticismo canzonettaro come “Ancora”, Heather Parisi spopolava con “Cicale” e l’unico eccentrico era Alberto Camerini con “Rock ‘n roll robot”, tanto per farsi un’idea. Chi prima di quel momento aveva osato mettere in musica simile ardita iconografia culturalmente di alto profilo? Eppure l’Italia tutta si infiammò per questo siculo serioso ed emaciato, tale Franco Battiato (notato anni prima e amato da Giorgio Gaber), e non smetteva di canticchiare cercando quell’equilibrio gravitazionale che non facesse “cambiare idea sulle cose, sulla gente”. Una specie di inspiegabile sortilegio.
Sempre nel 1981, anno cruciale, Battiato consegnò alla nostra storia musicale quel “Bandiera bianca” diventato iconico (lui probabilmente mi avrebbe preso a schiaffi per l’utilizzo di questo termine figlio di una modernità cialtrona) arcinoto per gli “occhiali da sole” da indossare per avere “più carisma e sintomatico mistero”. Da allora basta sfoggiarne un paio per sentirselo dire da chiunque. Giocava e faceva equilibrismi dialettici su tutto: “A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata, a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie”. E poi strali contro: “Gli idioti dell’orrore” e “Quei programmi demenziali con tribune elettorali”, senza dimenticare che siamo “Figli delle stelle e pronipoti di Sua maestà il denaro”, piazzando un verso magistrale che al contempo citava molto ironicamente il pezzo cult di Alan Sorrenti uscito quattro anni prima.
E pensare che il nostro, dopo una gavetta come chitarrista nel mitico “Cab 64” di Milano accanto ai nomi storici del nostro umorismo, aveva esordito nel 1972 sfornando in 24 mesi il triplete di album ermetici “Fetus” (la copertina fu censurata per la foto di un feto), “Pollution” e “Sulle corde di Aries”. Musica elettronica e sperimentale. Un mondo totalmente diverso e di nicchia, lontano anni luce dai pezzi che lo portarono al successo. Clamori mediatici e salotti tv che il nostro peraltro evitava sempre (tranne gli inviti del conterraneo Pippo Baudo, altro catanese illustre), da cantautore schivo qual era. Non certo privo di ironia, ma sempre garbatamente schivo. Dedito a poche collaborazioni artistiche (le più celebri con il violino di Giusto Pio e le affubulazioni del filosofo Manlio Sgalambro) e la passione per la pittura. Senza contare una fugacissima incursione a titolo gratuito nella politica locale. Tutto questo prima del 2019, quando si ritirò dalle scene e rimase a casa, prigioniero della malattia.
C’è poi il Battiato più intellettuale e più intimista, che con “La cura” (1996, dall’album “L’imboscata”) mise nel suo carniere un capolavoro di rara sensibilità. “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai nella tua vita … Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie … E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, e io avrò cura di te, io sì che avrò cura di te”, si legge nel citatissimo testo.
Dal 1999 al 2008, in una fase già calante della sua produzione, si dedicò a un’altra trilogia, quella di “Fleurs”, rileggendo alla Battiato (che voleva dire raffinatezza assoluta, anche in quella voce un po’ tremolante, anche nel gioco abusato delle cover) pezzi leggendari della musica internazionale: da “Que reste-t-il de nos amour” di Trenet a “Se mai”, versione italiana della “Smile” di Chaplin. Pezzo da andare a ripescare, per chi non lo conoscesse.
Franco Battiato è stato un gigante dal cotè traversale: alto, basso, mistico, criptico, pop, persino una medicina per l’anima. E, nonostante fosse schivo, tutti, spettatori e addetti ai lavori, hanno sempre amato dargli del Maestro. A differenza di alcuni (non facciamo nomi, non sarebbe elegante) che da sempre amano sentirsi dare del Maestro.